giovedì 18 settembre 2014

Le cascine di Milano: antiche testimonianze di un mondo contadino

Genesi ed evoluzione della “cascina”

A partire dal X secolo la presenza di cascine è attestata nella campagna milanese o addirittura in città: si trattava per lo più di depositi per prodotti agricoli o fienili, presumibilmente costruiti in materiale deperibile, come paglia e argilla, e talvolta annessi alle abitazioni cittadine.
Queste costruzioni, a partire dal XIII secolo, iniziarono a caratterizzarsi come strutture insediative composite, fatte di edifici di abitazione e rustici, con una diffusione sempre maggiore, come ebbe modo di testimoniare anche Bonvesin de la Riva nel 1288 (Bonvesin de la Riva, De magnalibus Mediolani, 1288, testualmente scriveva: “...sunt mansiones extraordinarie, quarum quedam molandina, quedam vulgo cassine vocantur, quarum vix possem perpendere numerum infinitum” -Cap. II, numero X).
Ma già nel 1207, ad esempio, le numerose cascine “de la Bazana” (a sud di Milano, nella Pieve di Cesano Boscone), erano di proprietà di vecchi ceti aristocratici, e ospitavano i “cassinari” ai quali era stata affidata la conduzione dei fondi.
La “Compartizione delle fagie”, una fonte fiscale del 1345 riguardante la suddivisione degli oneri tributari fra tutti i proprietari che avevano possedimenti lungo le strade che dalla parte meridionale della città si dipartivano verso il contado, costituisce oggi un riferimento particolarmente prezioso in quanto fornisce un vasto elenco, seppur parziale, delle cascine situate sul nostro territorio.
Le cascine più vicine alle mura cittadine erano ovviamente limitate per quanto riguarda lo spazio di terreno a disposizione, come nel caso delle strutture appena fuori Porta Ticinese, caratterizzate per essere dotate di sole 60 pertiche [Nel Milanese, una pertica equivale a 654,52 metri quadrati] di terra, ma quasi sempre fornite di torchio e mulino.
Naturalmente, torchi e mulini erano presenti anche in città, dentro le mura, anche se le loro funzioni potevano non essere legate all’agricoltura. Ancora oggi alcuni toponimi viari ricordano la presenza di questi manufatti: si pensi alla via Molino delle armi (dove appunto i mulini mossi da naviglio interno erano utilizzati per la preparazione di armi), oppure alla via del torchio, al Carrobio di Porta Ticinese. Ricordava sempre Bonvesin de la Riva che i mulini in città “...plura nonagentis sunt numero, cum suis rotis” (De magnalibus..., cap. IV, numero XIIII).
Allontanandosi progressivamente dalle mura, si potevano incontrare nuclei di maggior estensione, con una tipologia di coltura anche più varia, come ad esempio nelle cascine sorte attorno al monastero di San Barnaba al Gratosoglio, dove si avevano vigneti e cereali.
Sappiamo che nel 1437, il 40% delle 1.526 pertiche delle cascine di Basmetto, della Crosta e della Torretta, appartenenti al monastero di San Barnaba, era sistemato a prato irriguo: coltura legata all’abbondanza di corsi d’acqua e già notevolmente diffusa, con ogni probabilità, in relazione allo sviluppo dell’allevamento, peraltro non sempre documentato.
Per quanto riguarda lo schema architettonico e tipologico delle cascine, sebbene in tutti i trattati di architettura vi fosse sempre una parte dedicata alla casa contadina e alla azienda agricola (si veda ad esempio Leon Battista Alberti, Sebastiano Serlio, Andrea Palladio, Vincenzo Scamozzi, fino alla trattatistica settecentesca del Milizia), non è possibile riferirci a modelli tipizzati. Possiamo invece parlare di esempi: uno dei meglio documentati è quello della cascina Roverbella nei pressi di Pantigliate, di proprietà della famiglia Amiconi. Un documento trecentesco attesta che la cascina era composta da due grossi corpi di fabbrica, uno dei quali con orientamento da settentrione a mezzogiorno. Partiamo proprio da quest’ultimo. Attenendoci a quanto indicato si possono elencare nell’ordine: due camere, la “caminata” o stanza del camino con portico e con i “solaria de supra”, quattro “cassi di cassina in quibus sunt stabia bestiarum”, cioè le stalle, che anche nella cascina moderna manterranno il medesimo orientamento. Dopo le stalle una “caxela”, probabilmente adibita alla trasformazione dei prodotti derivati dal latte, due grandi camere fornite di portico, un’altra “caminata” con portico e piano superiore. Tutto ciò costituiva un unico blocco edilizio circondato sui tre lati da un fossato, una delimitazione e al contempo una protezione che si utilizzava molto spesso in alternativa alle siepi vive o morte.
Alle spalle dell’edificio, oltre il canale, si aveva un brolo ampio otto pertiche; sul davanti la corte col pozzo e il torchio; in posizione decentrata, per evitare pericoli di incendio, il forno. A oriente, perpendicolare al primo, vi era un secondo edificio costituito da “cassi sex cassinae cupati” ossia sei cassi coperti di tegole.
Ai grandi fondi agricoli da loro controllati fin dal XIV secolo (i Brivio ad esempio nel 1397 ottennero in enfiteusi perpetua le terre del monastero di Santa Maria di Calvenzano, presso Vizzolo Bredabissi), alcune nobili famiglie milanesi riuscirono a sommare (alla fine del Settecento) quelli derivanti dagli acquisti dei terreni degli ordini religiosi soppressi.


Proprio così gli Stampa, oltre ai beni da loro già posseduti in quella zona, entrarono in possesso delle 500 pertiche del soppresso monastero di S. Vittore Grande di Milano. All’atto delle soppressione di enti ecclesiastici, ad esempio, la Repubblica Cisalpina faceva seguire l’esproprio dei loro possedimenti, che successivamente metteva in vendita per ricavarne denaro sonante, necessario per il pagamento delle spese delle truppe e per inviarlo in Francia. Con esborsi spesso vantaggiosi, molte famiglie nobili poterono così di fatto acquistare fondi ed immobili precedentemente ecclesiastici.
Accanto a questi grandi proprietari terrieri ed immobiliari, occorre ricordare come l’impennata dell’organizzazione del lavoro agricolo dell’area milanese sia una conseguenza dell’affermarsi della figura del cosiddetto fittavolo. Questi infatti, fino a quel momento intermediario e appaltatore di fondi, iniziò ad acquisire una mentalità imprenditoriale gestendo direttamente l’azienda, con contratti novennali, sfruttando lavoratori salariati, versando un affitto assai elevato ai proprietari, ma diventando di fatto esso stesso una sorta di potente padrone all’interno della cascina dove, come ricorda il Cattaneo, i salariati infatti “non conoscono ulteriori padroni”.
Così, nel corso del XVIII secolo, si conclude il processo di tipizzazione delle cascine dal punto di vista architettonico, tipologico e funzionale. Gli elementi essenziali che si individuano nella grande azienda agricola della Bassa sono: le abitazioni (quella dei salariati e quella del fittabile), i rustici e i locali per la lavorazione dei prodotti. L’impianto che racchiude tali costruzioni è a corte chiusa, quantomeno su tre lati, ma spesso anche il quarto lato veniva cintato da un muro. Il portone d’ingresso poteva trovarsi sia nel muro di cinta, quanto più spesso attraverso il blocco delle case dei salariati. L’impianto chiuso nacque prevalentemente per motivi di difesa da possibili furti e razzie, molto frequenti nelle campagne soprattutto nelle ore notturne. Una volta sprangato il portone, la cascina era quasi una fortezza.
Esistevano poi numerose vere cascine-fortezze, ovverosia fortificate con tanto di torri d’avvistamento e ponti levatoi, diffusesi soprattutto nel ‘400 e nel ‘500.


Solo a partire dalla metà del XIX secolo si abbandonò la struttura a corte chiusa, anche per l’esigenza di ampliare spesso il numero dei fabbricati, sulla scorta della diminuzione dei furti e delle violenze nelle campagne, conseguenza di migliori attività di polizia e di controllo del territorio da parte dello Stato.
All’interno della corte (come appunto venne a chiamarsi il complesso della cascina che si affaccia su di un cortile-aia, spazio comune e collettivo di lavoro) si trovano dunque le abitazioni dei contadini che occupano un fabbricato a corpo semplice stretto e allungato, privo di qualsiasi elemento decorativo.




Ogni famiglia dispone di un locale con camino a piano terra, il luogo della vita domestica, e di uno al piano superiore, entrambi dotati di due finestre giustapposte. Dalla stanza del camino si accede direttamente al solarium con una ripida scala alla fratesca che verrà eliminata quando la distribuzione a ballatoio prenderà il sopravvento. Queste abitazioni definite in alcune consegne d’affitto “cassi di casa”, nella loro ripetitività seriale assumono quasi la rigidità di un modulo, da 20 a 30 mq per locale, e sono prive di qualsiasi comodità.
Solo eccezionalmente sono dotate di fornello di cotto e di acquarolo di vivo, come risulta in una consegna del 1739. La pavimentazione della caminata era comunemente di terra o in qualche caso di cotto, mentre per il locale soprastante, lo spazzacà, vengono utilizzati “matoncini, pianele, o gerone”.
Ben differente è la casa del fittavolo o del padrone della cascina. Ubicata in una posizione che permette un controllo sull’attività interna dell’azienda, essa spicca sia per la dimensione che per alcuni elementi architettonici (il portico affacciato sull’aia e spesso una loggia) o particolari decorativi. I locali che la compongono sono numerosi e il collegamento fra piano terreno e piani superiori avviene tramite una scala interna in due andate. Anche i particolari erano curati: lo si deduce da un documento secondo cui la cucina ha “suolo di cotto e finestre, guarnerio nel muro con anta, l’acquarolo di cotto buono, camino e fogolaro di cotto”.
Spesso alla casa del fittavolo sono uniti, o quantomeno prossimi, la caneva (cioè la ghiacciaia), il locale del torchio, le dispense, la lavanderia, la casa che serve per fabbrica e, poco distante, il forno con suolo e volto di cotto.
Stalle, fienili, portici, depositi, porcilaie e pollai vengono comunemente accomunati sotto la denominazione di rustici.
L’elemento che caratterizza le cascine della Bassa è sicuramente lo stallone delle vacche, lungo da 5 a 12 cassi. Chiusi al piano terreno e aperti invece nel sovrastante fienile, detto cassina. Sui lati lunghi si trovano le mangiatoie e le piccole finestrelle e al centro del locale una corsia di passaggio per espletare i lavori di mungitura e pulizia. La stalla, per garantire un maggior calore durante l’inverno, è generalmente costruita con una altezza tanto che “un homo comune non tocchi appena col capo”, come raccomandava il Falci nel XVII secolo. Verso corte la falda del tetto si prolunga fino ad appoggiarsi sui pilastri (un portico usato come ricovero per gli attrezzi o come stalla estiva). Legato alla notevole diffusione della coltivazione della vite, il locale del torchio è presente di frequente nelle cascine di area milanese (a partire dal XVI secolo). Lo troviamo quasi sempre in prossimità della casa del fittavolo che sovrintende direttamente alla vendemmia e alle successive fasi di vinificazione.


Cartografia storica

L’individuazione delle cascine esistenti in quello che oggi è il territorio del comune di Milano è ricavabile attraverso lo studio e l’analisi della cartografia ancora reperibile, leggendo la quale è possibile non solo localizzare i vari insediamenti (non tutti ovviamente ancora esistenti), ma anche datare gli stessi, e ciò confrontando le mappe delle varie epoche al fine di individuare in quale periodo, approssimativamente, una cascina venne fondata.
Le due mappe più antiche, buona fonte per la rappresentazione delle campagne attorno a Milano, sono quelle preparate in occasione delle visite pastorali di Carlo Borromeo a partire dal 1566, che si svolsero nelle pievi di Segrate e di Cesano. Entrambe conservate presso l’Archivio della Curia Arcivescovile di Milano, sono disegni a penna su carta a mano, con inchiostro seppia.





 Nel 1600 venne invece data alle stampe la prima edizione della carta di Giovanni Battista Claricio, intitolata “carta dei dintorni di Milano per il raggio di 5 miglia di braccia milanesi” (oggi conservata presso le civiche raccolte Bertarelli; la carta ebbe due successive ristampe, nel 1659 e nel 1682). Questa mappa, molto dettagliata e con l’indicazione di tutti gli insediamenti rurali compresi in un territorio che si sviluppava nei sette chilometri di distanza dalle mura spagnole, permette di reperire tutte le cascine esistenti a questa data, avendone l’autore inserito il relativo nome.
Per l’epoca settecentesca sono utilizzabili le 2387 mappe di campagna del catasto teresiano, redatte tra il 1721 e il 1723 e volute da Carlo VI (anche se poi il complesso lavoro fu terminato solo nel 1760 sotto il governo di Maria Teresa). (Catasto teresiano, conservato presso l’Archivio di Stato di Milano, fondo mappe di Carlo VI).
La validità degli accertamenti e delle rilevazioni del catasto teresiano durarono fino alla metà dell’Ottocento, quando venne sostituito dal nuovo catasto per il Lombardo-Veneto.
L’analisi si chiude con la carta edita dal tenente Giovanni Brenna, del 1833-1842, raffigurante Milano al centro e il territorio agricolo circostante, esteso a nord fino a Sesto San Giovanni, a est fino a Peschiera, a sud fino a San Giuliano/Quinto de Stampi, ad ovest fino al borgo di Seguro (Ten. Ing. Geografo Giovanni Brenna “Dintorni di Milano”, presso le civiche raccolte Bertarelli).



Elenco delle cascine

Per visualizzare l'elenco, la descrizione e la localizzazione delle cascine presenti oggi all'interno del comune di Milano, clicca qui:  elenco cascine e loro descrizione con geolocalizzazione




 

Approfondisci sulla scomparsa Cascina Arzaga

 

Bibliografia


AA. VV., Cascine a Milano, 1987 (a cura dell’Ufficio editoriale del Comune di Milano);
AA. VV., Ad Ovest di Milano-Le cascine di Porta Vercellina, a cura dell’ass. Amici Cascina Linterno;
L. Chiappi Mauri, Il mondo rurale lombardo nel Trecento e nel Quattrocento, in La Lombardia delle Signorie, 1986;
De Carlo V., Le strade di Milano, 1998.

mauro colombo
settembre 2007
maurocolombomilano@virgilio.it