Inizialmente furono i Visconti e poi gli Sforza (e i nobili funzionari che gravitavano attorno alla Corte) a realizzare fuori Milano delle dimore per trascorrere piacevoli periodi di svago, soprattutto nella stagione estiva.
Gli antichi castelli, perso il ruolo difensivo e militare, vennero così trasformati in residenze campestri dove banchettare, ricevere gli amici, organizzare, nei boschi contigui, battute di caccia. Si preferirono i castelli vicino alla città, per evitare viaggi troppo lunghi, ma anche castelli più distanti vennero spesso ingentiliti per tali diletti, magari prevedendo tempi di permanenza più lunghi.
Cusago, Vigevano, Pavia, divennero vere residenze rinascimentali per il divertimento della corte sforzesca, e di conseguenza, anche i nobili al servizio dei Duchi, ricevuti in regalo, per i loro servigi, edifici, casini da caccia, o terreni, cominciarono ad imitare il modus vivendi dei loro Signori.
Più tardi, fu un po' tutta l'alta nobiltà milanese (il patriziato) a dotarsi, per diletto ma anche per prestigio, di lussuose residenze fuori le mura pensate per deliziarsi e deliziare gli ospiti durante i mesi caldi. Quando insomma la città diventava meno interessante, e soffocante.
Tenendo sempre presente che viaggiare era scomodo, rischioso e lento, a partire dal 1500 e ancora di più nel 1600, fu privilegiata la costruzione di nobili dimore campagnole lungo il corso del Naviglio Grande. Affacciarsi sul naviglio voleva dire raggiungere le residenze comodamente con le barche, senza dover percorrere strade poco sicure e sconnesse, usando carri e carrozze. I nobili si imbarcavano in città e raggiungevano, controcorrente risalendo il naviglio, le loro dimore in poche ore, a seconda naturalmente di quanto fossero lontane da Milano.
Nell'arco di breve tempo, ne sorsero davvero tante, una sorta di gara a chi, tra i nobili, avesse la residenza estiva più grande, lussuosa e prestigiosa, con vera finalità di rappresentanza e di affermazione di potere e ricchezza.
Marcantonio Dal Re, un noto incisore attivo a Milano nella prima parte del 1700, iniziò a pubblicare un'opera monumentale (che purtroppo non riuscì mai a completare) dedicata proprio alle Residenze campestri dei nobili milanesi.
Grazie alla sua opera "VILLE DI DELIZIA o siano PALAGI CAMPAREGGI NELLO STATO DI MILANO Divise in SEI TOMI Con espressivi le Piante, e diverse Vedute delle medesime incise e stampate da Marc'Antonio Dal Re Bolognese In Milano, contrada si santa Margherita, all'insegna dell'aquila imperiale, 1727" (esiste un'ulteriore edizione successiva: "Alla Piazza de'Mercanti, nel Portico Superiore delle Scuole Palatine. MDCCXLIII") possiamo conoscere succintamente la storia di alcune di queste residenze, e vederne le caratteristiche attraverso le deliziose e precise incisioni.
Riuscì a rappresentare solo dodici di queste ville, essendo il suo colossale progetto naufragato. Ma all'epoca erano già molte di più, e soprattutto sul naviglio si trovavano le più famose. Ricordiamo a titolo di esempio, lungo il Naviglio partendo da Milano: il palazzo Stampa Aloardi a Gaggiano, il Cittadini Stampa ad Abbiategrasso, il Gromo di Ternengo e l'Archinto in Robecco, il Clerici a Castelletto di Cuggiono (per la famiglia Clerici, il palazzo di città e questa villa di delizia: clicca qui).
Tra tutte queste meraviglie architettoniche, veri paradisi per i fortunati che vi trascorrevano le giornate estive (tra ozio, cibo, danze e caccia) una fu certamente sfortunata tanto da non essere non solo mai completata a causa dei costi lievitati e fuori controllo, ma addirittura essere parzialmente smontata per recuperare materiale edile utile per portare avanti un palazzo di città. Questo clamoroso disastro economico (perchè questo fu, un fallimento economico legato ad una delle più antiche e nobili famiglie) fu Palazzo Archinto, che avrebbe dovuto essere la piccola Versailles di Robecco sul Naviglio "distante dalla città di Milano circa 16 miglia verso Ponente situata sul gran canale detto Naviglio".
La famiglia e il progetto faraonico
La passione per i latifondi e gli investimenti immobiliari, è da far risalire a Filippo Archinto, primo marchese di Parona e conte di Tainate (1644-1712).
In città, la nobile e antica famiglia, arricchitasi a partire dal Quattrocento grazie alla professione di banchieri, vantava numerose proprietà, tra le quali il palazzo Archinto in via Olmetto, che Filippo acquistò e fece totalmente ristrutturare su progetto di Francesco Maria Richini. Purtroppo, l'edificio, uno dei migliori esempi del barocco lombardo, fu quasi completamente distrutto dai bombardamenti alleati nel 1943. Il palazzo fu ricostruito dall'architetto Luigi Dodi tra il 1955 ed il 1967.
La famiglia Archinto, successivamente, vendette il bel palazzo agli inizi dell'ottocento, per realizzarne uno ancora più imponente in via Passione (si tenga presente che le spese per la costruzione e per l'arredo del palazzo compromisero fortemente il patrimonio della casata che si trovò ben presto in rovina, proprio come era successo secoli prima per la costruzione del palazzo di Robecco).
Ma fu proprio nella località di Robecco, piccolo borgo agricolo sul naviglio, che Filippo Archinto decise di dar prova di potere e ricchezza, anche perchè con l'avvento degli Spagnoli nel Ducato, la famiglia Archinto ottenne di essere compresa nel cavalierato di Malta e successivamente ottenne il grandato di Spagna di I classe. Era quindi fondamentale non solo avere una dimora estiva, ma soprattutto che questa mostrasse agli ospiti la potenza raggiunta dalla famiglia.
Nel 1709 viene stipulato tra Filippo e la famiglia Barzi un contratto di acquisto di una piccola casa da nobile presso il naviglio: è il primo passo verso il grandioso progetto. Al padre Filippo (che ben poco, a parte gli acquisti iniziali, fece per vedere il cantiere partire seriamente), succedette il figlio Carlo (1670-1732), che diede il vero impulso alla grandiosa opera, sia dal lato progettuale, sia dal lato costruttivo vero e proprio.
Nel 1722 il cantiere risultava però ancora in alto mare, visto che sulle nuove mappe catastali volute da Carlo VI di Spagna non vi era traccia di un "costruito", ma solo la menzione della particella unificata nel numero 555.
Nel 1727 vide la luce, come detto, l'opera di Marcantonio Dal Re, il quale afferma che il palazzo Archinto, seppur non completato, è comunque "quasi ridotto a perfezione". Evidentemente, l'incisore peccava di ottimismo, anche perchè la sua incisione non si riferisce ad un palazzo del tutto esistente, ma sicuramente alla consultazione dei progetti su carta.
Del resto il figlio Carlo si era ritrovato sommerso dai debiti (non solo dovuti a questo faraonico progetto), tanto da essersi rivolto al Senatus mediolanensis (organo giurisdizionale di massima istanza del Ducato) per chiedere le necessarie deroghe ai fedecommessi istituiti dai suoi avi, in modo da poter utilizzare i fondi avuti in eredità. Doveva anche predisporre anche le doti per le sorelle.
Carlo dovrà così abbandonare i lavori alla residenza campestre, che di fatto vide la luce nelle due parti aggettanti verso il naviglio: una completa, l'altra rimasta solo in mattonato.
Il suo primogenito, Filippo (1697-1751) non si interessò mai al progetto, che di fatto si arrestò. E infatti un altro documento pubblico del 1750 descrive l'edificio Archinto come "fabbrica imperfetta". Sicuramente i lavori erano ben lungi dall'essere terminati, e infatti sappiamo che mai lo saranno.
Il cantiere e ciò che era stato costruito rimasero in una sorta di letargo per almeno cinquant'anni. Abbiamo una nuova menzione della tragica situazione solo nel 1805, quando viene predisposto l'inventario dei beni caduti in successione allorquando muore il figlio di Filippo, cioè Carlo (1735-1804, che morì senza eredi estinguendo la linea successoria di primogenitura). Questo inventario ci permette di sapere che tutt'attorno ai due corpi di fabbrica realizzati, vi è una massa considerevole di materiale da costruzione, tipico di un cantiere in abbandono da anni.
Possiamo dire con certezza che all'epoca risultavano innalzati l'attuale corpo esistente (oggi restaurato), il suo gemello (poi demolito) e il raccordo, incompleto, tra questi due corpi di fabbrica.
Poi tra il 1827 e il 1855 si ha la totale demolizione del corpo gemello rispetto a quello oggi superstite. Si sostiene, forse a ragione, che detta demolizione fu decisa da Giuseppe Archinto (1783-1861) per recuperare i materiali, utili a dar vita al palazzo cittadino di via Passione (cercando così di salvaguardare le proprie finanze già in sofferenza).
L'architettura e la forma del palazzo
Basandoci su quanto (poco) è giunto a noi rispetto al progetto iniziale, e basandoci soprattutto sulle incisioni di Marcantonio Dal Re che si era ispirato non solo alla realtà bensì ai fogli di progetto che aveva sicuramente visionato presso la committenza (era interesse della famiglia mostrare i progetti, per vedere il proprio palazzo pubblicato nell'opera editoriale in fase di realizzazione), possiamo tracciare qualche nota circa la forma e lo stile architettonico del palazzo.
La pianta dell'intero edificio avrebbe dovuto essere a forma di H, con quattro distinti corpi edilizi (due verso la campagna, mai realizzati, e due più corti verso il naviglio, realizzati ma uno solo quello ancora oggi visibile), uniti tra loro da un corpo di fabbrica centrale con fronte verso il naviglio (realizzato solo in parte, poi demolito).
Uno degli elementi più caratteristici e monumentali, che forse non avrebbe avuto eguali in Lombardia, è rappresentato, almeno leggendo la pianta tramandataci dall'incisione del Dal Re, dallo scalone d'onore. Un vero monumento composto da due rampe semicircolari di sicuro effetto scenografico (se fossero state realizzate, cosa che quasi sicuramente non avvenne mai). Il modello forse fu ispirato da un disegno del Palladio, pubblicato nel suo trattato di architettura (I quattro libri dell'architettura, 1570), una copia del quale era sicuramente nella biblioteca degli Archinto.
Il progetto dell'intero edificio (o almeno di gran parte) fu predisposto da Carlo Federico Pietrasanta (Abbiategrasso 1660-Milano 1735), architetto che si mosse nella Lombardia barocca e rococò, esercitandosi in quello stile che verrà poi definito barocchetto lombardo. A Milano, dei suoi lavori, è oggi visibile la facciata curvilinea di santa Maria della Sanità, in via Durini.
Egli frequentò la famiglia Archinto per dare idee e suggerimenti anche per altri loro edifici. Inoltre, era spesso invitato a frequentare la biblioteca della famiglia, ricca di moltissimi manuali e pubblicazioni di architettura (una delle passioni di Carlo Archinto, il quale forse progettò alcune parti della villa o forse suggerì o impose certe scelte al Pietrasanta).
Oggi, come detto, l'intero palazzo è rappresentato unicamente da uno dei due corpi aggettanti verso il naviglio, quasi un superstite di un progetto vanaglorioso, incapace di tenere in conto le effettive risorse economiche necessarie, che gli Archinto, per vari motivi, non riuscirono a reperire.
Bibliografia
Kluzer-Comincini, Ville del naviglio grande, 1997
mauro colombo
aprile 2023
maurocolombomilano@virgilio.it