martedì 23 dicembre 2014

L’assassinio del duca Galeazzo Maria Sforza




Galeazzo Maria nacque a Fermo il 14 gennaio 1444, alle ore 21, primogenito di una delle coppie più determinanti per la storia milanese, convolata a nozze il 24 ottobre 1441: Bianca Maria Visconti, ultima discendente legittimata della casata che aveva governato la città per quasi due secoli, e Francesco Sforza, primo signore di Milano ad appartenere ad una nuova dinastia, che, terza in ordine di tempo, deciderà le sorti cittadine prima dell’inizio dei lunghi domini stranieri. 

All’ombra del padre

Il piccolo Galeazzo fece il suo arrivò a Milano all’età di sei anni, quando, in braccio alla madre, trionfalmente la città festeggiava e salutava, quale nuovo signore, il padre Francesco Sforza. A tredici anni venne mandato da Borso d’Este, con un folto seguito di medici e precettori, per intraprendere gli studi degni di un futuro duca: lettere italiane, francesi e latine; filosofia, musica, arte, matematica e scienze dei cieli. Senza naturalmente dimenticare le importanti lezioni per diventare un provetto cavallerizzo, cacciatore, danzatore. All’arte della guerra, preferì pensarci direttamente il padre, all’epoca vero ed indiscusso maestro.
La vita sentimentale di Galeazzo Maria doveva inizialmente prendere una svolta con il matrimonio combinato con Susanna Gonzaga, casata alla quale Francesco Sforza molto doveva per i fatti d’arme contro i Veneziani, ma il tutto naufragò a causa di insormontabili difetti fisici della sposa (la poveretta era gobba, come del resto molti membri della famiglia Gonzaga, e finì con l’andare in convento). Neppure il secondo tentativo con la sorella minore di Susanna, Dorotea, andò in porto: stavolta ci si mise lo stesso Francesco che, mutata la condizione politica, non aveva più interesse ad imparentarsi con i signori di Mantova, ormai reputata capitale di uno staterello prettamente agricolo. Così, venne fatta passare per gobba anche Dorotea (che a dire delle cronache, gobba non era, ma che abili visite mediche “di parte” descrissero come destinata alla gibbosità), la quale morì poi alla giovane età di 23 anni. 
Il giovane Galeazzo venne allora promesso in sposo alla giovane Bona di Savoia, sorella di Carlotta di Savoia, seconda moglie del re di Francia Luigi XI: una parentela decisamente ambita, quella col re di Francia, che Francesco volle guadagnarsi a tutti i costi, tant’è che mandò in soccorso del re, nel 1465 sotto l’assedio di feudatari ribelli, il proprio esercito capitanato dal primogenito Galeazzo. Non fu una grande impresa militare, anzi, per Galeazzo sembrava inventata apposta per dargli, sulla scena internazionale, quella fama militare che ancora non aveva. Pochissimi pericoli, e un buon numero di capitani sforzeschi pronti a difenderlo e ad assumersi i rischi veri. Ma tant’è, fu un successo sforzesco, e una grande entrata in scena del ventunenne erede del ducato di Milano. Che però, proprio ai massimi trionfi in suolo francese, fu informato della morte del padre, spentosi l’8 marzo del 1466. Fu una vera fortuna, e una vera impresa, il riuscire a rientrare a Milano, dopo l’agguato subito alla Novalesa, nei pressi di Susa, a causa della sua inimicizia con Amedeo IX.



Il quinto duca di Milano

Il 20 marzo il nuovo signore della città fece trionfale ingresso (secondo l’organizzazione della madre) da Porta Ticinese, in un vero tripudio di popolo.
Negli anni successivi concluse gli accordi per il suo matrimonio con Bona: questa avrebbe portato in dote 100.000 ducati d’oro, e il giovane duca, dal canto suo, si impegnava a costituire una controdote di 15.000 ducati d’oro all’anno, da pagarsi alla sposa grazie alle nuove tassazioni da applicare alle città di Pavia, Piacenza, Parma e Como.
Celebrate le nozze per procura il 10 maggio 1468, la novella sposa sbarcò a Genova nel luglio seguente, e ad accoglierla Galeazzo inviò il fratello Ludovico Maria (proprio il Moro che poi prenderà il potere). Le nozze verranno ratificate in Duomo il 7 luglio, poco più di tre mesi prima che morisse la madre Bianca Maria, condannata dal figlio a ritirarsi a Cremona, suo feudo dotale, ma in realtà morta lungo la strada per arrivarci, dalle parti di Melegnano.
Dal matrimonio sarebbero nati quattro figli, anche se Galeazzo ne ebbe molti di più, essendo famoso per la sua plateale infedeltà, come vedremo tra poco.
Il Duca di Milano amava spendere gran quantità di denaro per circondarsi di lusso e bellezza, e della sua passione se ne giovò prevalentemente il Castello, più volte sottoposto a restauri e a innovazioni, quali la loggetta che si affaccia sulla corte ducale, e alla quale si accede attraverso la comodissima scala a gradoni lunghi, così voluta per poterla percorrere direttamente in sella al cavallo







Tra i meriti politici e amministrativi, si suole ricordare una intelligente pavimentazione delle strade di Milano con blocchi di pietra, voluta e realizzata in tempo da record nel 1470, ma anche progetti di più ampio respiro, come l’introduzione dell’arte della stampa, per amore della quale finanziò la tipografia di Panfilo Castaldi e di Antonio Zaroto (arte che a Milano trovò fertile terreno, tanto da renderla capitale dell’editoria), della coltivazione del riso (ne mandò in dono dodici sacchi ad Ercole d’Este), del gelso (gli alberi di “moroni”) e della seta (già compresa, nella sua importanza, dal nonno Filippo Maria Visconti). Rese navigabili la Martesana e quella parte di naviglio pavese tra Pavia e Binasco. Si occupò anche della condizione dei suoi sudditi, cercando (per quanto era concepibile all’epoca) di risolvere i problemi legati all’insalubrità di certi mestieri. Si preoccupò di introdurre un sistema di censimento e anagrafe su base civile e non più ecclesiastica. Suo anche il merito, negli ultimi anni di governo, di aver riordinato il sistema delle emissioni monetarie della Zecca di Milano, rinnovandone i nominali e curando particolarmente la purezza della lega. Le denominazioni delle monete diventarono quanto mai varie (ed ancora oggi, per noi, di difficile interpretazione): il ducato, o zecchino d’oro, il grosso, il testone, il doppio testone, il soldo, il sesino, la trillina, ecc ecc.. Decise anche di spostare l’edifico della Zecca, che lasciò così la sua collocazione risalente all’epoca romana presso la chiesa di San Mattia alla Moneta (attuale via Moneta) per risorgere, ingrandita e meglio attrezzata, nella strada adiacente, oggi battezzata Zecca vecchia.
Nella primavera del 1471, con la moglie Bona, scese con un seguito principesco (si dice, anche con buffoni, scimmie e pappagalli da divertimento) a Firenze, quasi a sfidare Lorenzo, il Magnifico.




Divenne anche famoso per il gran numero di amanti collezionate, di tutte le estrazioni, anche se con quelle di rango sapeva essere alquanto riconoscente: a Lucia Marliani, che a Milano abitava nella parrocchia di San Giovanni sul Muro e che fu sempre fatta passare per l’amante del fratello Ludovico (affinché Bona non ne soffrisse troppo), regalò le entrate fiscali del Naviglio Martesana, e nel dicembre 1474, il ricco feudo di Melzo con annesso castello.
D’altro canto, Galeazzo era un uomo spesso crudele e malvagio coi propri nemici, e soprattutto molto impulsivo. Ammetteva di essere eccessivamente “lussurioso e “pomposo”, ma smorzava il vizio auto-assolvendosi sostenendo che, del resto, non è gran peccato, in un signore, l’essere superbo.
La sua vita, a molti così invisa, durò comunque poco: il 26 dicembre 1476 (gli mancava meno di un mese a compiere trentatrè anni), fu ucciso da una congiura organizzata, si disse, con la finalità di sollevare il popolo, o forse, imbastita dallo stesso re di Francia assetato di espandere i propri domini.

L'assassinio

Il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, Galeazzo volle assistere alla messa mattutina recandosi presso la chiesa di Santo Stefano. Del resto, il giorno precedente, Natale, alle tre messe aveva preso parte rimanendo al sicuro nella Cappella Ducale.

Nonostante fosse scortato da fedeli soldati, l’agguato fu repentino e del tutto inaspettato. Appena il duca mise piede sotto il portico della chiesa (portico ora scomparso, ma presente fino almeno alla metà del 1600; oggi una lapide ivi murata ricorda l’evento) tre congiurati, Giovanni Andrea Lampugnani, Gerolamo Olgiati, e Carlo Visconti, gli furono addosso coi rispettivi pugnali.
L’assalto fu descritto da Orfeo Cenni da Ricavo, consigliere e amico del duca, quella mattina in veste di accompagnatore: “Essendo nel mezzo della chiesa quello traditore di Giovanni Andrea li misse tutto il pugnale nel corpo. El povero signore si li misse le mani e disse: Io son morto! Illo ed eodem stante, lui reprichò l’altro colpo nello stomacho; li altri dua li dierono quatro colpi: primo nella ghola dal canto stancho, l’altro sopra la testa stancha, l’altro sopra al ciglio nel polso, el quarto nel fiancho di drieto, e tutti di pugnali. E questo fu inn un baleno e uno alzare d’aocchi, e chosì venne rinculando indrieto, tanto che quasi mi diè di petto. E veniva traboccando, e io lo volsi sostenere, ma non fui chosì presto che ‘l cascò a sedere e poi riverso tutto. E dua di quelli traditori non lo abandonaron mai per insino che fu in terra”.
Questa circostanziata descrizione, seppur bisognosa di interpretazione, ci rappresenta bene la violenza e la rapidità dell’azione, così inaspettata da rendere impossibile o comunque vana ogni difesa, sia da parte del Duca, sia da parte degli uomini a lui fedeli che lo attorniavano in quella uscita pubblica.
I colpi inferti al Signore di Milano, infatti, anche se sferzati di fretta e col timore di un immediato arresto, risultarono in più casi mortali.
Partendo dalla narrazione coeva appena vista, e da studi successivi, Francesca Vaglienti (vedi bibliografia in calce) ha ricostruito nei minimi dettagli quella che oggi chiameremmo la scena del delitto.
Dunque, il primo congiurato a colpire Galeazzo fu il Lampugnani, che si era inginocchiato di fronte al duca, in segno di (falso) saluto e omaggio. Questi colpì dal basso verso l’alto, tenendo il pugnale con la destra e recidendo con ogni probabilità, avendo mirato al basso ventre, l’arteria femorale sinistra. Il secondo colpo, come lasciatoci detto da Orfeo Cenni, penetrò invece nello stomaco.
A questo punto, a meno quindi di tre, quattro secondi, intervennero gli altri due congiurati, con quattro colpi: alla gola dalla parte sinistra, con quasi certa recisione della arteria giugulare; alla testa, da sopra, quindi tra osso frontale e parietale; nella zona sopraccigliare dove pulsa il sangue, cioè in una zona compresa tra l’arcata orbitale sinistra e l’arteria temporale (e la lama dovette affondare, all’incirca, fino alle fosse nasali); l’ultimo, nel fianco posteriore della testa.
Per il numero di colpi e la posizione degli stessi, è lecito pensare che la morte del Duca sopraggiungesse nell’arco di pochi secondi, sufficienti, tuttavia, per permettere all’Olgiati e al Visconti di allontanarsi indisturbati dal luogo del delitto, sfruttando il panico e la sorpresa che si erano ingenerati nella chiesa. Il Lampugnani fu invece immediatamente raggiunto dalle spade degli sforzeschi, e trovò così immediata morte.


I due fuggitivi vennero comunque arrestati pochi giorni dopo, processati, e giustiziati nel gennaio seguente.
Tornata una parvenza di calma, ma sopraggiunto presto il timore che qualcosa di grosso si stesse preparando nell’aria, il cadavere di Galeazzo fu immediatamente trasportato in sacrestia e spogliato (si contarono quattordici ferite, otto giudicate mortali), e successivamente abbigliato con una apposita veste cerimoniale fatta arrivare in fretta e furia dal Castello, dove alla vedova Bona di Savoia non rimaneva che asserragliarsi e proteggere il figlioletto Gian Galeazzo, legittimo erede del potere ducale. Non era ancora chiaro quale piega avrebbe potuto prendere la congiura, e tutto era teoricamente possibile da parte dei nemici del ducato sforzesco, primo fra tutti, il re di Francia.

Stante il clima politico tesissimo e i rischi elevati, i funerali si tennero la notte stessa, e al termine il corpo fu portato in Duomo, dove venne tumulato prima che spuntasse l’alba del nuovo giorno. L’inumazione avvenne in una porzione di terreno compreso tra due colonne, evitando di segnalare il posto con indicazioni o altri segni, affinché nessuno potesse rinvenire il cadavere.
E difatti, del corpo di Galeazzo Maria non si seppe più nulla, proprio come era interesse del fratello Ludovico (il Moro), nei cui piani vi era quello di usurpare il potere al giovane nipote Gian Galeazzo.
Ma forse qualcuno, e vedremo chi, quel cadavere non solo ebbe modo di individuarlo, ma addirittura ebbe il permesso (e perchè negarlo, del resto?) di spostarlo da Milano, per dargli una più degna sepoltura.

Le indagini contemporanee

La soluzione del giallo, quello che ruota attorno al luogo ove trovò eterno riposo il corpo ducale, ci obbliga a fare un salto di cinque secoli e a spostarci nella città di Melzo.
Qui, in zona centrale, sorge la chiesa di Sant’Andrea, la quale, pur essendo le sue origini risalenti all’anno mille, intorno al 1960, dopo anni di abbandono, rischiò di essere rasa al suolo per lasciare posto ad un ampio parcheggio. Solo nel 1980, dopo più di un secolo di incuria, ha visto finalmente una vera rinascita, grazie ad un pregevole restauro voluto e organizzato da una tenace associazione del luogo.


Durante i lavori di restauro, che hanno tra l’altro messo in luce l’esistenza di affreschi attribuiti alla scuola di Leonardo, fu rinvenuto, sotto il pavimento della zona absidale, un cranio di adulto, mal conservato, frammentato e non completo, che tuttavia accese la curiosità degli operatori.
Datato col carbonio 14, si stabilì il periodo di decesso del suo proprietario: tra il 1430 e il 1480. Gli esami autoptici rivelarono dati importantissimi: innanzitutto, l’età, compresa tra i 32 e i 39 anni, il sesso, maschio, e la razza, caucasica.
Il “caso del cranio senza nome” fu affidato, infine, alla professoressa Vaglienti, che volle appurare se vi fossero le condizioni storiche, mediche e scientifiche per poter attribuire il teschio al duca di Milano Galeazzo Maria Sforza.
Il sospetto di essere in presenza di una parte dei resti del Duca assassinato nasceva da un fatto storico inconfutabile: l’amante prediletta di Galeazzo, come già detto, Lucia Marliani, aveva dal Signore di Milano ottenuto in dono il feudo di Melzo. Non era quindi un’ipotesi troppo ardita supporre che la donna avesse fatto traslare il corpo dell’amato, padre dei suoi figli, per inumarlo definitivamente nella chiesa di Sant’Andrea.
L’analisi antropologica e medico-legali del reperto hanno fin da subito evidenziato due lesioni importanti sulla calotta cranica. Un’area depressa a stampo, con chiari segni di rimodellamento osseo e avanzata guarigione, un colpo ricevuto dunque alcuni anni prima della morte, probabilmente inferto da un corpo contundente avente una superficie battente piccola. Anche la seconda lesione, sulla parte frontale, presenta simili caratteristiche: avanzata guarigione, corpo contundente, piccola superficie battente.
Questi traumi potrebbero coincidere con le lesioni che Galeazzo Maria si era procurato durante i numerosi duelli e simulazioni di battaglia che amava ingaggiare con i fratelli Ludovico e Sforza Maria, durante i quali gli spavaldi giovani non si tiravano certo indietro per forza e violenza dei colpi, inferti con le migliori armi bianche che l’epoca conoscesse: lance, mazze d’arme, azze, martelli d’arme, queste ultime tre tipiche armi da botta e punta. E a nulla valevano le raccomandazioni paterne di Francesco, di “non schirzare con ferri, sarizi e bastoni”.
Lo studio dei denti rinvenuti ha permesso una dettagliata analisi della vita del proprietario del cranio. Essi sono apparsi molto usurati ma sostanzialmente sani e privi di carie, fatto questo coincidente, innanzitutto, con una adeguata e regolare nutrizione (privilegio dei ceti più abbienti), ma anche con una ricercata igiene orale, all’epoca basata sulla pulizia dei denti mediante spazzole in ferro molto abrasive. Sappiamo che Galeazzo teneva molto ai suoi denti, che manteneva puliti usando, appunto, gli strumenti (eccessivamente invasivi) in voga presso le persone di altissimo livello economico.
Si è inoltre scoperta una lieve ipoplasia dello smalto su canini ed incisivi. L’ipoplasia è un arresto temporaneo della crescita dello smalto che si depone sui denti nella fase del loro sviluppo. Tale patologia è data da eventi stressanti che colpiscono il soggetto quando ha tra i sei e i nove anni (periodo in cui spuntano e si assestano incisivi e canini).
Come riportano i biografi, Galeazzo Maria non ebbe, in tenera età, una buona salute, e tanto meno lo si trovava in forma all’età di nove anni, quando soffrì di “febbre terzana doppia”, vale a dire di febbri ricorrenti malariche, assai diffuse nella penisola italiana.
In quell’occasione, che si protrasse per circa tre settimana nell’estate del 1453, il futuro duca fu tormentato da febbre alta, sudorazioni abbondanti e continue epistassi con abbondanti perdite di sangue.


Come appare chiaro, vi sono molti punti di coincidenza tra le caratteristiche del cranio rinvenuto in Sant’Andrea e Galeazzo Maria. Il tentativo di estrarre DNA dalle ossa rinvenute ha purtroppo dato esito negativo, ed è stato perciò impossibile confrontarlo con quello di altri corpi di casa Sforza.
Si è però voluto tentare la strada della ricostruzione facciale: partendo dal cranio, si è ricostruito l’ipotetico aspetto che poteva avere il volto, per poterlo confrontare con i (presunti) ritratti del duca (in principal modo, con la figura posizionata a sinistra, a cavallo, nel celebre Corteo dei Magi di Benozzo Gozzoli, che dovrebbe appunto rappresentare Galeazzo nel 1459, quando era ancora, solo, conte di Pavia). Un paragone può anche essere fatto con la rappresentazione che il duce si fece fare per il conio del doppio testone d’argento. Pur trattandosi di una tecnica grossolana e senza certezze scientifiche (soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione di due elementi determinati per le fattezze di un viso: le labbra e il naso), la ricostruzione ha permesso un confronto anche con un ritratto di profilo di Bianca Maria Visconti, e, in un certo senso, si sono potute notare numerose affinità.
Nonostante dunque si possa ritenere molto probabile l’inumazione del corpo di Galeazzo nella chiesa di Sant’Andrea, elementi certi sulla fine del corpo del duca non se possono, per ora, avere.


Bibliografia

Vaglienti F.M., Anatomia di una congiura. Sulle tracce dell’assassinio del duca Galeazzo Maria Sforza tra storia e scienza, in "Rendiconti dell’Ist. Lombardo Accademia di scienze e lettere", CXXXVI/2, 2002;
Belloni C., Milano in età sforzesca, in Storia illustrata di Milano, a cura di Franco Della Peruta, vol. III, 1993
Bindelli B., La Zecca e il gabinetto Numismatico di Milano, cenni storici, 1880
Crippa C., Le monete di Milano dai Visconti agli Sforza dal 1329 al 1535, 1986
Lopez G., I signori di Milano, 2003
Zeppegno L., Le chiese di Milano, 1999

Mauro Colombo
12 ottobre 2005
ultima modifica: dicembre 2014

venerdì 19 dicembre 2014

La visita dell'imperatore Francesco Giuseppe nel 1857


francesco giuseppe sissi milano

L'imperatore Francesco Giuseppe e la conserte Elisabetta iniziarono nel tardo novembre 1856 un viaggio diplomatico nel Lombardo-Veneto: l'imperatore sperava che la grazia della affascinante Sissi potesse addolcire la popolazione del nord Italia, ormai apertamente ostile alla Corona asburgica.
Dopo aver trascorso il Capodanno a Venezia,  il 15 gennaio 1857 gli sposi entrarono pomposamente a Milano. Lasceranno la città il 2 marzo.
francesco giuseppe sissi milanoL'intera popolazione, e soprattutto le classi altolocate e nobili, mostreranno per tutto il periodo del soggiorno grande freddezza, se non  disprezzo, verso la coppia imperiale. 
A ben poco servirono, in quelle settimane meneghine, alcune scelte politiche pensate per ingraziarsi la cittadinanza: innanzitutto una amnistia nei confronti dei detenuti politici; secondariamente, la messa a riposo del malvisto Radetzky,  sostituito nel comando militare da Ferencz Gyulai
Infine, la nomina a governatore generale dell'arciduca Massimiliano d'Asburgo, fratello dell'imperatore, fautore di una politica di distensione.
Persino alla serata scaligera in onore della coppia non mancò un fatto clamoroso: la autorità  austriache avevano preteso di sapere se i nobili, proprietari dei plachi, sarebbero andati alla rappresentazione, in modo da prevenire imbarazzanti posti vuoti. Le famiglie aristocratiche finsero di dare il loro assenso, ma inviarono poi, ad occupare i palchi, i propri domestici, in segno di grande disprezzo per la Corona.

L'ingresso in città e l'allestimento scenico



Per l'entrata ufficiale in città dell'imperatore e dell'imperatrice,  vennero progettati e costruiti con materiali di veloce e semplice lavorazione (legno, cartapesta, gessi e stucchi) tre fabbricati provvisori, in modo che l'ingresso della coppia apparisse il più sfarzoso e scenografico possibile.
Poichè il corteo reale arrivava dalla strada per Brescia (dove aveva fatto una tappa), nei pressi del rondò di Loreto (oggi piazzale Loreto) fu eretto un padiglione in legno. Qui, si ebbe il benvenuto ufficiale delle autorità cittadine.  I consorti poterono inoltre salire su una apposita carrozza scoperta, in modo da entrare in città ammirati dal folla. 
La partecipazione di pubblico da lì in avanti era garantita: dalle campagne infatti erano stati prelevati centinaia e centinaia di contadini, al prezzo di una lire ciascuno, affinchè vi fosse uno "spontaneo" afflusso di popolo! Insomma, un po' di figuranti per maggior sicurezza.


francesco giuseppe sissi milano loreto



Partiti dal rondò, la coppia percorse  il lungo stradone di Loreto (ufficialmente: strada postale per Bergamo e Brescia; oggi corso Buenos Aires), per arrivare ben presto in porta Venezia: qui il corteo imperiale passò sotto un degno arco trionfale. Anche questo, naturalmente, posticcio, realizzato in legno accanto ai caselli daziari.


francesco giuseppe sissi milano venezia oberdan



francesco giuseppe sissi milano


Infine, dopo aver solcato il borgo e poi corso di Porta Orientale (oggi corso Venezia) e corso Francesco (oggi Vittorio Emanuele), la carrozza reale si fermò in piazza Duomo, sul lato della corsia del Duomo.
Qui era stato allestito un pomposo baldacchino, con poltrone e sedie per le varie autorità. L'imperatore tenne un discorso e ringraziò la città di Milano per l'accoglienza. 
Nella foto,  si nota davanti al Duomo la struttura, in colore scuro.


francesco giuseppe sissi milano duomo


Dei tre manufatti provvisori, ci restano oggi le foto di Luigi Sacchi (approfondisci qui) e alcune stampe ed incisioni, e la moneta commemorativa di porta Venezia.


Mauro Colombo
dicembre 2014


lunedì 15 dicembre 2014

La Descrizione di Milano di Serviliano Latuada



Una delle più  famose Guide settecentesche della città di Milano è senz'altro l'opera di padre Serviliano Latuada, la celebre "Descrizione di Milano ornata con molti disegni in rame delle fabbriche più cospicue, che si trovano in questa metropoli".
Il Latuada nacque a Milano nel 1704,  e fu abate della congregazione dei chierici regolari di san Filippo, con sede in San Satiro a Milano. Morì nella nostra città nel 1764.
La sua Guida, per un totale di 2.500 pagine, fu stampata nel 1737-1738 in 5 tomi, a spese di Giuseppe Cairoli mercante di libri, in Milano, con bottega sotto il portico dei figini (il coperto dei Figini un tempo sorgeva sulla piazza del Duomo).
L'opera è corredata da un ricco apparato iconografico, di ben 48 tavole fuori testo (perlopiù ripiegate) tra cui la grande carta topografica della città e l'antiporta al primo volume, disegnate dal milanese Girolamo Ferroni (1687 – 1730), pittore ed intagliatore per acqueforti,  ed incise con la tecnica dell'acquaforte su  rame da Johann Georg Seiller (1663-1740).
Le tavole raffigurano facciate, piante e spaccati dei più importanti edifici milanesi descritti nei tomi.



L'antiporta ritrae la basilica di San Lorenzo e le sue celebri colonne, e vi campeggia il motto: "Lanigero de sue nomen habet", frase probabilmente coniata da Sidonio Apollinare, che significa "(Milano, la città) che prende il nome dalla scrofa semilanuta" (una delle tante spiegazioni circa l'etimologia di Milano).

L'opera si apre innanzitutto con una breve storia di Milano, dalla sua fondazione sino all'impero di Carlo V.
Dopodichè la descrizione delle "fabbriche" cittadine si articola nella classica suddivisione per Sestieri: porta Orientale, porta Romana, porta Ticinese, porta Vercellina, porta Nuova e porta Comasina.
Non mancano varie digressioni su alcuni aspetti che evidentemente il Latuada aveva a cuore: una descrizione delle Istituzioni pubbliche cittadine, la storia della colonna infame, ecc.



Difficilmente si può prescindere dalla consulatazione dalla Descrizione del Latuada ogniqualvolta si studia una Chiesa, un Monastero, una "fabbrica" cittadina, dato che le informazioni dell'Autore, seppur non sempre precise,  danno comunque una visione di ciò che questi monumenti erano all'epoca, considerando poi che molti, successivamente, andarono distrutti. Le sue schede sono una notevole fonte storica primaria.
Villa Luigi, in Bibliografia delle guide di Milano, afferma: «Il Latuada vuole raggiungere, in quest'opera, una esattezza maggiore che nei precedenti autori... Il libro è il più pregevole del diciottesimo secolo per la copiosità delle notizie, l'esattezza, i buoni riferimenti estetici e lo stile familiare e chiaro».


Si tratta in definitiva di un'opera  molto ricca e utile, che può essere reperita e consultata integralmente sia in formato digitale (ad esempio in archive.org), sia in una economia ristampa di facile reperibilità (ed. La vita felice).
Per quanto riguarda invece  l'Opera nel testo originale a stampa (cosa che interessa maggiormente i bibliofili), segnalo che può essere reperita sul mercato librario antiquario in svariate copie, più o meno complete.
Normalmente è facile trovare esemplari privi (del tutto o in parte) delle tavole iconografiche annesse. Difficilmente si trova un'edizione completa anche della bella e grande carta di Milano (ed in questo caso il valore si aggira su un paio di migliaia di euro). Le incisioni, infatti (soprattutto la mappa) troppo spesso sono state staccate abilmente da mercanti e antiquari senza scrupoli, al fine di rivenderle separatamente (onde ottenere più facili e alti guadagni).
Personalmente utilizzo spesso per le mie ricerche una copia priva dell'intero apparato iconografico, ancora con "barbe" e brossura in carta azzurra dello stampatore (cioè non successivamente tagliata e rilegata, operazione che, ricordo, era demandata ai rilegatori, che eseguivano questa fase secondo le richieste e i gusti del commitente).

mauro colombo
dicembre 2014
maurocolombomilano@virgilio.it








martedì 9 dicembre 2014

Tram e treni al Giambellino




Negli anni trenta la situazione tranviaria del Giambellino era caratterizzata dall'arrivo, nel quartiere, di due linee: il 9 e il 28, che qui terminavano la loro corsa dopo aver percorso in condivisione gran parte della via Solari (e provenienti, rispettivamente, dalla Bovisa e dall'Ortica).
Fino al 1937, per l'esattezza, questi due tram facevano capolinea all'incrocio tra via Giambellino e via Brunelleschi, dove un apposito anello permetteva alle vetture di tornare indietro (capolinea "Giambellino").
Ancora oggi in quel punto si può notare la configuarazione che il vecchio rondò (ormai sparito) aveva imposto agli assi stradali. Ecco una foto degli anni Cinquanta e una foto aerea del 1965:

giambellino rondò tram



Il quartiere era poi costeggiato dalla linea ferroviaria Milano-Mortara, i cui binari scorrevano paralleli alla via Giambellino e la separavano dal naviglio grande.
La linea ferroviaria in quegli anni aveva già subito la modifica che l'aveva attestata, fin dal 1931, alla stazione di porta Genova, senza più permetterle di continuare, come da iniziale progetto,  verso lo scalo del macello (oggi parco Solari), lo scalo Sempione e da lì alla stazione Centrale (leggi qui l'articolo  dedicato alla ferrovia in zona Solari).
La linea tuttavia raggiungeva (e raggiunge) la Centrale scavalcando il naviglio  all'altezza della chiesa di San Cristoforo, mediante l'apposito bivio, in modo da potersi unire alla linea di cintura sud, che verso piazzale Lodi risaliva appunto alla Centrale.
Pochi chilometri prima della stazione di Porta Genova (ormai divenuta di testa) si trovava (e si trova oggi) la stazione di San Cristoforo, aperta per servire alcune frazioni campestri della città e per favorire l'arrivo degli operai che lavoravano nelle fabbriche della zona.

Alla fine degli anni trenta la zona della stazione di san Cristoforo era stata interessata da una notevolissima espansione demografica, con la costruzione dei caseggiati del quartiere Mina, edilizia popolare destinata agli immigrati in arrivo dal Sud e agli Italiani rientranti dall'estero, richiamati dalle promesse di Mussolini.


In quegli anni, quasi 20.000 abitanti del nuovo Giambellino erano costretti, per raggiungere il tram al rondò Brunelleschi, a percorrere quasi un chilometro di strada non asfaltata e non illuminata.
Fu giocoforza istituire in fretta un'apposita linea di autobus, la linea "S" (detta poi Carioca), forse la più corta che la città conobbe.
Nella mappa 1937 si vede in rosso il rondò tranviario in Brunelleschi, e in rosso tratteggiato, l'autobus S fino alla stazione FS.


Nel 1940 il Comune si decise finalmente a prolungare il percorso tranviario, portando la linea del 9 e del 28 fino all'attuale largo Giambellino, dove un vasto rondò permetteva ai tram di tornare indietro. Tale anello si trovava, all'incirca, nello spiazzo erboso compreso oggi tra il deposito ATM e la chiesa.



L'opera di  prolungamento era risultata subito una mezza misura, un lavoro eseguito alla buona e di certo non risolutivo. Infatti, dal nuovo capolinea, il quartiere Mina era ancora distante, ma soprattutto la stazione san Cristoforo continuava a non essere servita dal tram, e appariva abbandonata nel nulla, in una piazza, dedicata all'Albania (sarà rinominata Tirana nel dopoguerra) totalmente dimenticata e soggetta ad allagamenti.
Fu quindi mantenuta la linea d'autobus S, seppur più corta di prima.
Nella foto, un tram percorre la via Giambellino sul finire degli anni trenta.



La situazione deplorevole venne stigmatizzata da un interesante articolo del Corriere della Sera dell'aprile 1941 intitolato "porta Genova e san Cristoforo: una stazione da sopprimere e una da sviluppare".
L'articolista, nel criticare le condizioni di disagio nel quale era abbandonato il quartiere, lamentava, come il titolo ci fa immaginare, come le FS stessero mal gestendo le loro risorse.
A San Cristoforo, infatti, ogni convoglio in arrivo da Mortara veniva  spezzato in due: alcuni vagoni ripartivano per la stazione Centrale (prendendo poco più avanti il bivio per la cintura sud), mentre altri venivano agganciati ad una apposita locomotiva per dirigersi in porta Genova.
Tutto ciò con tempi morti per le ovvie operazioni di aggancio e sgancio di vagoni, manovre, ecc ecc.
Lo stesso si verificava, in senso inverso, per i treni che, partiti dalla Centrale e da porta Genova, erano diretti a Mortara: giunti in san Cristoforo, venivano fermati e riuniti in un solo convoglio, che poi ripartiva alla volta della Lomellina.
Il progetto ipotizzato dal Corriere era quindi molto semplice: innanziutto il Comune avrebbe dovuto rendere più decoroso il piazzale della stazione di san Cristoforo e sistemare piazza Albania; poi prolungare doverosamente  la linea tranviaria fino a quel punto.
Le Ferrovie, da parte loro,  avrebbero potuto sopprimere la stazione passeggeri di porta Genova: i treni dalla Lomellina sarebbero andati diretti fino alla Centrale, e chi voleva poteva scendere in san Cristoforo, e trovare comodi e veloci tram per il centro cittadino (l'articolista afferma che dal capolinea Giambellino a via Orefici, il 9 impiegava 17/18 minuti).
Anche i costi dei biglietti sarebbero diminuiti.


La guerra purtroppo entrò nel vivo di lì a poco: nel 1942 iniziarono anche i bombardamenti sulla città.
Si bloccò così qualsiasi progetto, visto che altre sarebbero state le preoccupazioni di Milano per gli anni seguenti.
Peraltro quell'anno fu costruito un binario ferroviario  dalla stazione san Cristoforo fino all'ospedale militare di Baggio, lungo la via Inganni, affinchè i treni dei feriti raggiungessero prontamente il nosocomio.
Si vede il binario nella foto del 1943 qui accanto.


Solo nel 1948, con la ricostruzione postbellica, si dismise il rondò in largo Giambellino,  e la linea tranviaria venne prolungata fino alla stazione FS in piazza Tirana (e il tram 9 divenne 8).
Ecco finalmente il rondò in Tirana.




In anni recenti, peraltro, si decise per un ulteriore prolungamento, per portare il tram 14 (che oggi percorre l'asse Solari-Giambellino) all'attuale rondò attrezzato "Lorenteggio", al confine con Corsico.
Dal punto di vista ferroviario, invece, nulla è cambiato dal lontano 1940: la stazione san Cristoforo è ancora sotto-utilizzata (recentemente è stata privata anche del servizio auto+treno, molto utilizzato durante l'estate per chi portava l'auto al seguito verso il sud Italia).
La stazione di porta Genova continua a sopravvivere, pur essendo attuale il dibattito per una sua futura e definitiva dismissione.

mauro colombo
dicembre 2014


giovedì 4 dicembre 2014

via Rastrelli: dalle Poste al Plaza


La via Rastrelli corre, un po' defilata, a ridosso di piazza Diaz, quest'ultima aperta tra il 1928 e il dopoguerra, in seguito agli sventramenti che cancellarono il quartiere del Bottonuto (leggi qui).
Mentre il lato dei numeri dispari è da sempre occupato dal vasto e complesso edificio del Palazzo Reale, il lato dei numeri pari nasconde dal punto di vista urbanistico e storico diverse curiosità.

Palazzo delle regie poste

Nella via Rastrelli avevano sede le Regie Poste, in un bel palazzo neoclassico concepito da Leopoldo Pollack (1751-1806).
Di origini viennesi, fu molto attivo in Lombardia e soprattutto a Milano: per questa ragione la corona asburgica commissionò a questo architetto l'importante edificio.
Purtroppo, nel 1908, senza tanti rimpianti, venne demolito per far posto ad un pomposo progetto: l'hotel Plaza.



Hotel Plaza

Demolito il palazzo delle Poste, nel 1908 iniziò la costruzione di un vasto edificio angolare che avrebbe dovuto occupare anche la via Paolo da Cannobio.
Qui trovò sede il lussuoso Hotel Plaza, che sulle proprie cartoline pubblicitarie mostrava però la facciata come avrebbe dovuto essere, anche se in realtà ne era stata costruita solo metà, quella su via Rastrelli, appunto.
Quando furono terminati i lavori di demolizione del Bottonuto, l'hotel Plaza provvide a far erigere nel 1938 un vasto e moderno edificio sulla nuova piazza Diaz, in modo da avere un ingresso più prestigioso e visibile (diventando il "grand hotel Plaza").
Il vecchio edificio sulla via Rastrelli divenne così il retro dell'albergo.



Galleria Volpi Bassani

Nell'edificio del vecchio Plaza era stata costruita inizialmente, per volere del proprietario di alcuni lotti di case, l'avvocato Pietro Volpi Bassani, una galleria pedonale commerciale, che univa la via Rastrelli con la via Visconti, in pieno Bottonuto.
La galleria fu inglobata nella facciata del Plaza, poi venne chiusa all'apertura della piazza Diaz.

rastrelli volpi bassani



Ecco una mappa della zona negli anni Venti: in blu il progetto del Plaza, che avrebbe dovuto fare angolo tra le due vie. In rosso, il percorso della galleria Volpi.

Cosa resta oggi

Chi percorre oggi la via Rastrelli può ancora notare la parte realizzata del Plaza, ma non solo: nella facciata si vede un ingresso contornato da due colonne e chiuso da una vetrata, quello che un tempo era la galleria Volpi Bassani.
Del nuovo grand hotel Plaza di piazza Diaz, si può solo dire che ormai risulta chiuso per cessata attività, e si trova tristemente (e stranamente) in stato di abbandono.



mauro colombo
dicembre 2014
maurocolombomilano@virgilio.it