La storia di Milano, i suoi luoghi, i suoi personaggi. Un blog di Mauro Colombo

La storia di Milano, i suoi luoghi, i suoi personaggi. Un blog di Mauro Colombo
Anche su Instagram

lunedì 29 settembre 2014

La nascita di piazza della Scala





Uno dei più importanti teatri del mondo, la Scala, fu realizzato in seguito ad un evento drammatico: l'incendio del vecchio regio teatro di corte, ospitato nel palazzo reale.
Quando se ne decise la ricostruzione, si volle sfruttare l'occasione per edificare un teatro di più vaste proporzioni, non solo per numero di palchi ma anche per ampiezza del palcoscenico.
La corona austriaca mise a disposizione un terreno demaniale, quello dove sorgeva la chiesa gotica di  Santa Maria della Scala, risalente al 1381.


Ai finanziatori del teatro l'idea piacque: lo spazio era vasto e con l'acquisto di alcuni terreni contigui, si riuscì ad avere (quasi) lo spazio necessario per poter edificare quello che il Piermarini aveva progettato: un teatro degno di Milano.
Nessun rimorso quindi quando nel 1776 fu abbattuta l'antica chiesa.
E dopo due anni di lavori, nel 1778 il regio ducal teatro venne inaugurato, precisamente il 3 agosto di quell'anno. Andò in scena l'Europa riconosciuta, del Salieri.




Ecco la Scala come appariva in una delle prima incisioni che le vennero dedicate; a sinistra vediamo la parte ancora incompiuta.

piazza scala


La nuovissima costruzione, orgoglio dei palchettisti finanziatori, si affacciava però non su una piazza, come oggi, bensì su una contrada alquanto angusta e trafficata, che ancora portava il nome della demolita chiesa. Ecco infatti una mappa del 1807:






Dopo quasi una cinquantina d'anni di attività, la facciata del teatro si "allungò" verso la via S.Margherita: venne infatti edificata nel 1832 una costruzione porticata nello stesso stile piermariniano, che subito ospitò i locali della Ricordi (l'edificio fu detto appunto: casino Ricordi). Oggi questa porzione di teatro ospita il Museo. Ecco una stampa d'epoca:



Questa invece è una delle prima foto che abbiamo del Teatro: siamo a metà Ottocento, la Scala è ancora senza piazza, come ci mostra una mappa cittadina del 1856.


piazza scala


Il palazzo Marino faceva corpo unico con delle misere case che con i secoli gli si erano affiancate, deturpandolo. Il dado enorme di casupole si era spinto fino a pochi metri dal portico scaligero, creando due contrade: quella del Marino e quella di san Giovanni alle case rotte. 
Fu l'imperatore Francesco Giuseppe, durante la sua visita in città del 1857 a decretare l'abbattimento degli edifici, per dar vita alla piazza.
Così, nel 1858 la municipalità fece demolire l'isolato di modeste case che soffocava anteriormente la Scala, creandole innanzi  la vasta piazza, subito detta "del Teatro", poi nel 1865 battezzata "della Scala".



Ora bisognava trasformare la nuova piazza in qualcosa che fosse più di un semplice slargo tra le case. La bella pavimentazione aveva dimostrato ancora di più quanto risultasse vuota al centro, nonostante la piantumazione, come vediamo in questo scatto del 1870 circa.


piazza scala

Si iniziò con il progetto dello scultore Magni, che ideò  il monumento dedicato a Leonardo  Da Vinci (e ai suoi quattro allievi): l'opera fu inaugurata il 4 settembre 1872.
Ecco il monumento con il basamento originale.

scala leonardo
scala leonardo marino
Ed ecco verso il 1875 il monumento modificato nel basamento, e la piazza nel suo complesso.

piazza scala leonardo

Nel frattempo, avanzava il cantiere per la attesissima galleria coperta, del Mengoni, dedicata a Vittorio Emanuele II. Finalmente nel 1867 fu solennemente inaugurata alla presenza dello stesso sovrano, e piazza della Scala si abbellì ospitando il grandioso voltone di ingresso.



La piazza aveva ora due lati armoniosi (quello del teatro e quello della galleria, accanto alla quale sorgeva fin dal 1855 un palazzetto pregevole con intersi in terracotta: casa Brambilla del Pestagalli) e due lati ancora costituiti da caseggiati di infelice aspetto.
Soprattutto il lato occupato dal  retro  di palazzo Marino, che non era mai stato portato a termine, a differenza delle altre tre facciate cinquecentesche (quella su piazza san Fedele, quella su contrada del Marino e quella su contrada di san Giovanni alle case rotte). Ecco la situazione come appariva:

piazza scala marino


Intervenne allora l'architetto Luca Beltrami, che realizzò la quarta facciata del palazzo, copiando le altre tre: ecco così nel 1892 sistemato anche il penultimo lato della piazza; nella foto, si smontano i ponteggi.

scala marino beltrami piazza




A questo punto, mancava il quarto lato: ci pensò ancora una volta il Beltrami: nel 1907 iniziarono (non senza infortuni sul lavoro) le demolizioni delle abitazioni in contrada di San Giovanni alle case rotte, appartenenti quasi tutte alla contessa Janette dal Verme, salvo l'ultimo edificio d'angolo di proprietà del De Marchi.
Cadde (purtroppo) anche l'omonima chiesa a queste contigua. Molte delle opere d'arte ivi custodite erano già stata spostate in altre chiese. L'altare finì a Viconago, presso Luino; molte opere in san Bernardino e san Fedele; la pala di Salvator Rosa in Brera.

scala piazza san giovanni beltrami commerciale italiana


Dopo un veloce biennio di lavori edili, ecco il nuovo e monumentale palazzo, quello della banca commerciale italiana, nel 1911.

piazza scala BCI beltrami

 
piazza scala BCI beltrami

Ecco la piazza nel 1914:


Ed il Beltrami, che ormai ci aveva preso la mano, intervenne anche sull'ottocentesca casa Brambilla che resisteva accanto all'arco di ingresso della galleria: nel 1924 fu demolita e sostituita con un nuovo palazzo, anch'esso per la commerciale italiana (palazzo che poi diverrà la ragioneria comunale).

piazza scala BCI beltrami


Gli interventi successivi furono esclusivamente finalizzati a mutare più volte la disposizione delle aiuole attorno al monumento a Leonardo, a creare un parcheggio ed una rotatoria, ed infine a pedonalizzare l'intera area, riportandola alla sua configurazione tardo ottocentesca.

comerio scala beltrami


Ricapitoliamo i passaggi che portarono alla nascita dell'attuale piazza:
1776: demolizione della chiesa di santa Maria della Scala
1778: inaugurazione del nuovo teatro
1832: completamento della facciata teatrale con il casino Ricordi
1858: demolizione dell'isolato innanzi al teatro e apertura della nuova piazza
1872: monumento a Leonardo
1877: inaugurazione della galleria
1892: nuova facciata di palazzo Marino sulla piazza
1911 inaugurazione del nuovo palazzo BCI
1924 inaugurazione del secondo palazzo BCI



mauro colombo
settembre 2014
ultimo aggiornamento: giugno 2017

maurocolombomilano@virgilio.it




giovedì 25 settembre 2014

L'annessione dei Corpi Santi e la nascita della grande Milano





Da quando, nel lontano 1550, erano iniziati gli imponenti lavori per la costruzione della cinta bastionata spagnola, Milano si era data dei nuovi e precisi confini, ben più estesi di quelli un tempo assestati sul circuito medievale (per approfondire sulle mura romane, medievali e poi spagnole, clicca qui).
Col passare dei secoli, le varie cascine e i vari borghi nati all'esterno delle mura avevano dato vita ad un unico Comune, detto dei Corpi Santi, dizione che rimandava alla pratica di inumare, ai tempi dei primi cristiani, i corpi dei Martiri (appunto Santi) al di fuori delle mura cittadine. Per tale antichissima prassi, tutto il vasto territorio extramurario aveva così assunto questo curioso toponimo.
All’indomani delle battaglie risorgimentali, Milano contava 184.920 abitanti, la maggior parte dei quali (e precisamente 130.000) risiedeva nella parte più antica della città, quella delimitata dalla cerchia dei navigli, cosicché al di fuori di essa, e fino alle mura spagnole, la città era scarsamente abitata e urbanizzata, prevalendo prati e orti coltivati: insomma, una vera “periferia”.
Da ciò si evince facilmente che ai milanesi spazio per edificare nuove dimore o semplicemente per decongestionare la densità abitativa del vecchio nucleo (quasi 500 abitanti per ettaro) certo non ne mancava, senza sentire la necessità di estendere la città oltre le ciclopiche mura spagnoleggianti.

Il Dazio, una questione sempre aperta

Una delle fonti di maggior guadagno per il Comune milanese era data dal dazio sui consumi, che portava annualmente nelle casse pubbliche una cifra che si aggirava sui tre milioni di lire. Il dazio era una antica gabella che colpiva, secondo percentuali diverse, le merci che “entravano” in Milano, cioè che venivano fatte passare attraverso le mura spagnole che, secondo la loro nuova funzione, segnavano egregiamente il confine del territorio comunale e quindi daziario.
Le porte aperte nelle mura per gli scambi città-campagna erano sedici, ed ognuna era presidiata da un drappello di guardie daziarie (in tutto, la città ne aveva circa duecento, con caserma in via Luini), che trovavano alloggio e sbrigavano le incombenze insieme al numerosissimo personale amministrativo, in apposite costruzioni, detti caselli, alcuni dei quali edificati su progetto di valenti architetti e con notevole dispendio di denaro, a simboleggiare un preciso potere pubblico, quello della riscossione del dazio al consumo.
porta monforte tormenti


Nell'Ottocento, le porte, o varchi, o barriere che voler si dica, erano le seguenti:
- Ticinese o Cicca (coi caselli del Cagnola del 1880),
- Lodovica,
- Vicentina,
- Romana,
- Vittoria o Tosa,
- Monforte (coi caselli del Tormenti del 1889),
- Venezia o Orientale, detta anche Renza (coi caselli del Vantini del 1828),
- Principe Umberto, a servizio della Stazione centrale,
- Nuova (coi caselli dello Zanoia del 1813),
porta garibaldi comasina- Tombone di san Marco (solo per merci su acqua),
- Comasina poi Garibaldi (del Moraglia, terminata nel 1828, coi caselli del 1834),
- Tenaglia o Volta (coi caselli del Beruto del 1880),
- Sempione o Arco della Pace (coi caselli pensati dal Cagnola, ma realizzati solo nel 1838),
- Vercellina poi Magenta  (i cui caselli furono i primi ad essere demoliti insieme alle mura spagnole),
- Genova o macello pubblico (coi caselli del Nazari del 1873),
- Tombone di via Arena (solo per merci su acqua).
E poiché, come visto, al di là delle mura era un altro Comune, quello dei Corpi Santi, non soggetto a dazio, lì tutto costava meno. Comperare ad esempio a Milano un quintale di farina voleva dire pagarne il prezzo più la tassa applicata in sede daziaria per la sua introduzione in città.

porta garibaldi comasina milano
porta nuova principessa clotilde zanoia

Le prime proposte di annessione

Nel 1860, sull’onda di una medesima richiesta fatta dalla città di Pavia, Milano, per bocca del suo sindaco, Antonio Beretta, aveva fatto domanda di un congruo aumento del proprio territorio giurisdizionale, poiché moltissime persone residenti nella fascia sub-urbana dei Corpi Santi fruivano dei vantaggi economici derivanti dalla vicinanza alla città, nella quale quotidianamente entravano per lavorare e esercitare varie professioni, senza tuttavia partecipare agli oneri che la città imponeva ai propri cittadini. Insomma, alla Giunta municipale tutto questo non sembrava uno scambio equo.
La richiesta mirava ad annettere a Milano la fascia abitativa ad essa più vicina, quella compresa nella distanza di un chilometro dalle mura, lasciando quindi escluso una vasta porzione di territorio da riorganizzare suddividendolo in cinque nuovi Comuni: Gratosoglio, Barona, Maddalena, Fontana, Calvairate.
Il censimento del 31 dicembre 1861 aveva registrato la popolazione di Milano in 196.109 anime (divise nei sei mandamenti cittadini), mentre il Comune dei Corpi Santi ne annovera 46.348, divisi in due mandamenti.
Il progetto venne tuttavia presto accantonato, e rimase lettera morta per quasi un decennio.
Tornò però baldanzosamente in auge agli inizi degli anni settanta dell’ottocento, sotto la spinta di una diversa preoccupazione: ora non ci si crucciava più tanto di chi, abitando fuori, sfruttava i servizi di Milano senza pagarli, ma piuttosto dei milanesi che creavano ricchezza stabilendo fuori le mura nuove fabbriche e industrie, portando ricchezza ma senza pagare il dovuto a Milano.
Nell’ultimo decennio erano state molte le imprese milanesi che avevano spostato la loro sede nei Corpi Santi, basti pensare alla società degli Omnibus, al Gasometro, ai cimiteri e alle stazioni ferroviarie. I vantaggi erano notevoli: basti pensare che ogni impresa in Milano, comperando materie prime, doveva pagarci il dazio, mentre se la stessa impresa trasferiva la produzione nei Corpi Santi, le stesse materie le otteneva evitando il costo del dazio, con notevoli vantaggi economici. Inoltre, la tassa sui redditi prodotti a Milano era parecchio più elevata. Insomma, volendo definire tutto ciò con un’espressione moderna, i Corpi Santi erano un paradiso fiscale!


All’epoca, sindaco di Milano era Giulio Belinzaghi, a capo di una giunta di destra detta di riparazione.
Il comune dei Corpi Santi (che aveva sede, curiosamente, all’interno del Comune di Milano, in via Crocefisso 11) aveva per sindaco il dott. Noè, 40 consiglieri (molti dei quali abitanti a Milano), e una Giunta composta da 6 assessori più due supplenti. Contava 11 asili infantili e 28 scuole elementari diurne, tra maschili e femminili, equamente distribuite sul territorio. Era inoltre istituita una guardia nazionale composta da una legione di due battaglioni.
Il problema dell’annessione fu apertamente sollevato in Consiglio comunale (quello di Milano, ovviamente) dall’assessore Servolini il 14 ottobre 1871. Egli affermò tra l’altro che: ”Gli incrementi del suburbio furono tutti conseguiti a spese della città”.
L’occasione di tale presa di posizione era stata data dall’emanazione di un decreto del Parlamento (il n. 5815 del 18 agosto 1870) che stabiliva la possibilità di aggregare due Comuni in via imperativa, anche senza l’accordo dei due soggetti pubblici. Tale decreto forniva finalmente la possibilità di annettere i Corpi Santi a Milano nonostante l’opposizione decisa e datata del primo comune, ben conscio della sua situazione di vantaggio extradaziario.
Le prerogative dei Corpi Santi vennero tuttavia difese in Consiglio dal radicale Mussi, il quale, pur rappresentando un ceto medio borghese fatto di artigiani e imprenditori che vedeva positivamente l’annessione, temeva di finire del tutto sotto l’Amministrazione di Milano, della quale non condivideva gli orientamenti. Il discorso di Mussi suonava così: ”Reputo grande sciagura se l’unione avvenga con uno screzio fra la gran famiglia milanese urbana e suburbana. I grandi centri gareggiano di vincersi e soperchiarsi nell’attrarre di preferenza intorno a sé le industrie i commerci e le grandi amministrazioni. (…) Bisogna che l’unione si compia col voto di tutti”. Concluse il concetto il collega Pompeo Castelli: ”Città interna e città esterna sono tutt’uno. La città interna colle sue grandi esigenze, coi suoi capitali, colle sue estese relazioni europee e mondiali alimenta, dà vita e moto alla diuturna e feconda operosità delle industrie suburbane. La città interna largisce e fa defluire la sua ricchezza e potenza nel suburbio, ed il suburbio stende il necessario suo braccio a sostegno della città che gli è madre (…).”
Alla fine del lungo dibattito, il Consiglio comunale presentò istanza al Re affinché aggregasse al Comune di Milano il Comune dei Corpi Santi. Il decreto reale numero 1413 venne pubblicato l’8 giugno 1873: Milano divenne una grande città senza forse rendersene troppo conto.
Conseguentemente il numero dei consiglieri comunali venne portato da 60 a 80 posti, di cui 61 riservati alla città di Milano, mentre i restanti 19 ai Corpi Santi. Le elezioni per eleggere i consiglieri comunali non interessarono molto la popolazione, tanto che solo il 29% degli aventi diritto si recò al voto. Considerando poi quanto scarsi fossero i cittadini aventi all’epoca diritto al voto, bastarono circa tremila schede per eleggere i rappresentanti di 262.000 cittadini. Belinzaghi venne confermato sindaco.

La grande Milano



Dal punto di vista amministrativo, si mantenne in parte la suddivisione precedente l’aggregazione: il Comune di Milano risultò diviso in 8 Mandamenti, di cui 6 interni alle mura spagnole, mentre il 7° e l’8° riservati all’ex Comune dei Corpi Santi.
Questi due mandamenti “periferici” (il 7° per la zona Nord di Milano, l'8° per la Sud) furono divisi in 8 Riparti(zioni), e grosso modo comprendevano le seguenti località:
Rip. 1: uscendo da porta Genova, la vasta area compresa tra il naviglio grande e il naviglio pavese, più una parte un poco più a nord del naviglio grande, vale a dire la zona dove oggi scorre la via Foppa. In questa ripartizione era dunque la zona della Barona, la chiesa di San Cristoforo e la recente fabbrica di porcellane Ginori, e terminava a sud confinando col Comune di Assago. Comprendeva la stazione ferroviaria di porta Genova.
Rip. 2: uscendo da porta Ticinese o da porta Lodovica, era una zona scarsamente estesa ma molto allungata, confinante a ovest col naviglio pavese, e comprendente l’abitato del Gratosoglio e dei Tre Ronchetti. L’asse viario centrale era il corso san Gottardo e il suo prolungamento (oggi via dei Missaglia).
Rip. 3: uscendo da porta Vigentina o da porta Romana, la zona nata a cavallo del proseguimento periferico del corso di porta Romana (oggi corso Lodi) e della via Ripamonti, e comprendeva parte del Vicentino, e si spingeva fino alla cascina Gamboloita, senza però ricomprendere l’abitato di Rogoredo. Il suo confine meridionale era segnato dalla Vettabbia.
Rip. 4: uscendo da porta Vittoria, la zona a cavallo dell’attuale corso XXII marzo e via Corsica, in estensione fino al fiume Lambro, e comprendente quindi l’abitato di Monluè e di Calvairate, e la cascina Tagliedo, dove sorgerà l’aeroporto omonimo.
Rip. 5: uscendo da porta Venezia, porta Umberto o porta Nuova, a cavallo dello stradone di Loreto (oggi Buenos Aires), e confinante a nord con il naviglio martesana; il confine di Milano era attestato al rondò di piazzale Loreto, da lì partivano due strade (oggi via Padova e viale Monza) che portavano rispettivamente ai comuni di Crescenzago e Precotto. Era un’area molto frastagliata e non estesa, comprendeva la stazione centrale e la cascina Maggiolina, ma i confini comunali terminavano molto prima di toccare zone che sarebbero state agglomerate solo decenni dopo, come Lambrate (di Sopra e di Sotto), Cimiano, Turro, Gorla, Greco.
Rip. 6: uscendo da porta Comasina-Garibaldi, estesa a nord quasi fino al comune di Niguarda e Affori.
Rip. 7: uscendo da porta Tenaglia-Volta, comprendente il Cimitero Monumentale, e gli abitati della Ghisolfa e della Bovisa. Confinava a sud con corso Sempione. Vi si trovava la villa Simonetta e gli annessi complessi agricoli.
Rip. 8: uscendo da porta Sempione o da porta Magenta, la zona compresa tra la via Foppa (a sud) e il corso Sempione (a nord). Era divisa a metà dallo scorrere dell’Olona. Vi si trovavano compresi i borghi di san Siro, la zona della Maddalena (oggi De Angeli) e un’infinità di grosse cascine. Erano esclusi gli insediamenti di Lorenteggio e Lampugnano (con Lampugnanello).
Come si può facilmente capire dalla descrizione fin qui fatta dei vari riparti, la zona anulare annessa a Milano aveva caratteristiche diversissime rispetto alla città, ma soprattutto un’estensione dal Duomo assai difforme. Ad esempio, il Rip. 2 si estendeva per 7 chilometri oltre le mura spagnole fino in aperta campagna, mentre il Rip. 3 solo di 3 chilometri, arrestandosi a 3 chilometri di distanza dal Comune di San Donato, oggi confinante con Milano. Lo stesso dicasi per il Rip. 8, esteso per ben 5 chilometri.

I problemi legati alle nuove periferie

Con l’annessione, la grande Milano così nata (da ora suddivisa per praticità in circondario interno e circondario esterno) ebbe subito a risolvere grossi problemi e clamorose proteste.
L’ex comune dei Corpi Santi era decisamente diverso dal comune di Milano: era agricolo, scarsamente urbanizzato, e dal punto di vista viario decisamente arretrato. Le strade erano prevalentemente sterrate, salvo le principali d’accesso alla città, e per nulla o scarsamente illuminate. Tuttavia accanto alle cascine, avevano ormai da qualche anno iniziato a spuntare oltre alle fabbriche, anche le case degli operai, grigie, uguali, tutte in fila.
Questa condizione di inferiorità rispetto al decoro del circondario interno, fu messo in luce in Consiglio dal giovane Giovan Battista Pirelli, votato dagli elettori del circondario esterno, e le cui capacità imprenditoriali lo avevano già reso famoso nel campo della gomma.
Questi, nel 1877, lamentava che a quatto anni dall’annessione, il circondario esterno, che pur si faceva ogni anno più popoloso, dando asilo agli immigrati che trovavano impiego nelle industrie fiorenti e sempre più numerose, si reggeva su strade pessime e disagevoli, e testimonianza ne era la peggiore di tutte le strade, quella detta di circonvallazione (che appunto girava tutt’attorno le mura) che pur rivestendo l’importante ruolo di interscambio tra le due realtà cittadine, era perfino senza marciapiedi, il che portava a continui allagamenti in ogni giorno di pioggia.
Senza poi sottovalutare che, come ricorda il Pirelli che di operai se ne intendeva: “ Lungo le linee stradali che mettono capo a stabilimenti ed officine che raccolgono buon numero di operai, obbligati a percorrere quelle strade anche in ore di notte, l’illuminazione o manca affatto o è insufficiente”.
La questione urbanistica fu messa nero su bianco nella Relazione al “Piano generale che si propone per norma da seguire nella successiva compilazione di piani regolatori parziali nel circondario esterno” (1876).
Pur essendo questa Relazione generica e poco dettagliata in termini di futuro sviluppo, interessante è la disamina della condizione viaria. Infatti leggiamo:
“Un’altra condizione che si osserva nel suburbio è quella della direzione delle strade (…). I canali navigabili (i Navigli) il cui corso converge alla cerchia, e le principali arterie di strade, ossia le antiche nazionali, che si irradiano precisamente dal centro, dividono il comune aggregato in altrettanti spicchi senza collegamento. Le minori strade comunali hanno tutte un obiettivo al di là del Comune; e concorrono perciò anch’esse a dare un indirizzo in senso di sola irradiazione alla vita e allo sviluppo del territorio. Il sorgere di nuovi edifici si verifica quasi sempre seguendo inconsultamente la direzione delle strade esistenti; ciò è provato dal fatto che in relazione al numero grandissimo dei medesimi (edifici) scarse furono le proposte di nuove vie.
Dal che deriva che gli abitati mancano di comunicazioni trasversali; e quando il bisogno esige che uno si rechi da un abitato posto su di un raggio ad un altro posto sopra altro raggio occorre che quel tale venga a raggiungere la circonvallazione, percorra tutto il tratto che questa dista dall’altro raggio, e quindi ripieghi su quest’ultimo per raggiungere la meta. (…) È necessaria dunque una comunicazione in linea trasversale; e ritenuto poi come distanza ragionevole dalle attuali mura quella di 600 ad 800 metri perché offrisse un facile invito e perché fosse compresa la parte che costituisce l’immediato suburbio, e presi quindi come punti determinati quelli risultanti da tali dati si tracciò una via anulare” (si progettava, dunque, quella che è l’attuale circonvallazione della filovia 90 – 91). “Questa via deve avere larghezza di metri quindici, ma potrebbe estendersi a venti, e riuscirà una terza cerchia che verrà a segnare un’epoca dello sviluppo del nostro comune, e avrà lo scopo di trattenere e divergere in senso anularmente trasversale l’espandersi e lo svilupparsi delle nuove fabbriche che seguono oggi un indirizzo puramente irradatorio (..)”.
La relazione poi spiegava i progetti di nuove arterie che avrebbero aiutato il già ben avviato sviluppo urbano che la città stava vivendo nella zona Nord.
La causa per la quale, di contro, lo sviluppo a Sud stentava o addirittura non sbocciava neppure venne con veemenza stigmatizzata dal Consigliere Giuseppe Ferrario, che chiese alla Giunta di avviare le necessarie pratiche perché il Governo decretasse dalla parte meridionale della città l’allontanamento delle risaie e delle marcite.
Il cavaliere Ferrario fece notare infatti che: ”La zona suburbana, che sette anni fa costituiva comune a se, e che poi venne aggregata al comune di Milano, si estende buon tratto oltre le mura della città, ed in certi siti, come a nord-ovest, sino alla distanza di cinque chilometri. E perché mai noi vediamo la numerosa popolazione suburbana stanziata intorno alle mura della città, mentre per ragioni di economia, dovrebbe e vorrebbe preferire la campagna? La ragione (…) sterminate risaje tanto infette a ciò che havvi di più prezioso: l’aria, il clima e la salute”.
Infatti: “A Ronchetto, alle Case Nuove, a Gratosoglio, alla Conca Fallata, ad Annone , etc, siamo sempre nel Comune di Milano, quantunque più di 5 chilometri dalle sue mura, ed abbiamo le scuole comunali, gli asili, la sorveglianza municipale e le tasse come nell’interno, ma nulla di tutto ciò concorre ad alleviare quelle popolazioni dai fatalissimi danni delle risaie. Queste, specialmente nella stagione estiva, emanano esalazioni perniciosissime e di un carattere tanto maligno, da ridurre in poco tempo in fin di vita, non solamente donne e fanciulli, ma anche uomini di tempra robustissima.”
E a testimonianza di quanto affermato, portava l’esperienza delle condizioni di pessima salute dei quasi mille operai delle cartiere dell’amico Binda, alla Conca Fallata.

La ricerca delle soluzioni

Sempre nel 1877, il sindaco Belinzaghi, pur ammettendo che il circondario esterno soffriva di una situazione di inferiorità rispetto al circondario interno, soprattutto in tema di servizi pubblici, e prendendo a cuore le lamentele di centoventidue cittadini del borgo degli ortolani, che chiedevano vie migliori e illuminazione serale, tuttavia (e nonostante gli attacchi dell’opposizione), dichiarava che: ”Nel sobborgo, man mano che l’occasione si presenta, va estendendosi quella trasformazione nel sistema di manutenzione stradale richiesta (..). Quanto all’illuminazione, ammetto che il circondario esterno sia più scarsamente illuminato, ma trovo ciò naturale. Il circondario interno, per mantenere quello stato di cose più decoroso e ricco che ovunque è proprio della parte centrale dei grandi comuni, soggiace anche a sacrifici maggiori; parmi che una differenza tra l’uno e l’altro circondario debba sempre sussistere (…).”
Il 7 giugno 1878 si applicarono al circondario esterno i criteri toponomastici della città, quelli che avevano stabilito quando usare il termine via, viale, corso, piazza, ecc. Nacquero così, al posto delle dizioni precedenti un po’ campestri, corso Loreto, corso XXII Marzo, corso Sempione, corso Como e corso Vercelli.
Nel 1881 in sede di discussione di bilancio, venne nuovamente a galla il fatto che il circondario esterno (che anno dopo anno otteneva comunque migliorie non da poco) fosse meno gravato fiscalmente rispetto al circondario interno. La giunta tentò così di unificare almeno alcune tasse, quali il dazio sul vino e liquori, quella sui domestici e le vetture, e quella sui cani.
Le differenze impositive fiscali erano molto evidenti soprattutto in certi casi: ad esempio, per avere un domestico si pagava nel circondario interno 10 lire di tassa, ma nel circondario esterno solo 5. Per le vetture private, rispettivamente, 60 lire e 40 lire.
Il problema diede vita ad un duello aspro tra i vari consiglieri, tanto più che come è ovvio i membri del consiglio votati dal circondario esterno si mostravano sempre contrari ad ogni parificazione fiscale.
Fu in quella sede che cominciò a circolare la proposta del Pirelli, il quale chiese che fosse, una volta per tutte, abolita la elezione a scrutinio separato fra i due circondari, che creava in consiglio una maggioranza e una minoranza aprioristicamente impegnate a combattersi.
Così, a partire dalle elezioni dell’11 gennaio 1885, la votazione fu unificata senza distinguere più tra circondario interno ed esterno.
Fu un grande passo verso una vera unificazione di due territori, ma ancora non bastava: la linea daziaria rimaneva attestata sul circuito delle vecchie mura, sempre più malandate e già vittime delle prime demolizioni. Insomma, fiscalmente almeno, le città rimanevano sempre due: l’interna e l’esterna.

Le grandi rivolte

Nel 1886, la Giunta, che probabilmente aveva notato un affievolirsi della sistematicità dei controlli ad opera delle guardie daziarie, che sull’ingresso delle merci “per uso personale” tendevano a chiudere un occhio, emanò un (a prima vista innocuo) decreto col quale si ricordava che a far data dal primo aprile il regolamento del dazio sarebbe stato applicato integralmente. Se ciò apparve, inizialmente, come una giro di vite abbastanza prevedibile, ci si rese subito conto di cosa avrebbe significato. Infatti, centinaia di operai del suburbio entravano quotidianamente nel centro città per lavorare, e facevano ritorno alle proprie abitazioni periferiche solo a sera, terminata la giornate di fatica. Tali manovalanze, per rispettare le esenzioni daziarie, avrebbero dunque potuto portare con se solo mezzo chilo di pane a testa, dato che una quantità superiore sarebbe stata tassata come importazione. Tuttavia, per abitudine, gli operai entravano con due micche di pane per il pasto del mezzodì, equivalenti ciascuna a 380 grammi circa. Per rispettare il dazio, dunque, ogni operaio avrebbe dovuto portarsi come pranzo solo una micca e mezza, e comprarsi eventualmente il resto in città (pagandolo di più), oppure portarsi due micche, pagando il dazio per l’eccedenza del mezzo chilo.
Bastò poco perché scoppiasse una violenta rivolta dalle parti di porta Ticinese, al grido di Abbasso il comune approfittatore che vuole costruire i palazzi con l’imposta sulla fame.
Gli operai, molti dei quali aderenti al neonato partito operaio, si rifiutavano di assoggettarsi alle imposizioni daziarie del sindaco Negri, il quale si vide costretto, per mantenere la legalità, a schierare la fanteria e gli alpini. La guerriglia durò due giorni, e le carceri si riempirono con più di cento arresti. Ma alla fine il tre aprile il provvedimento del sindaco di ferro fu revocato: si autorizzò l’introduzione di pane per lo sfamarsi quotidiano fino a 800 grammi a testa.
La battaglia sul dazio, sulla vera unificazione tra le “due città”, continuò tra alti e bassi, tra scontri continui tra maggioranza ed opposizione.
Ma questa battaglia fece anche illustri vittime: nel dicembre del 1896 si suicidò, schiacciato dalle pressioni della minoranza per la riforma del dazio, l’assessore avv. Domenico Ferrario, le dimissioni del quale erano state respinte, il giorno innanzi il tragico fatto, dal sindaco Vigoni.
L’anno successivo venne anche promossa una causa, innanzi la quarta sezione del consiglio di stato, da 4.000 cittadini del circondario esterno, in merito al temuto allargamento della linea del dazio.
Ma il popolo milanese dovette passare attraverso i sanguinosi giorni del maggio 1898 e attraverso le cannonate di Bava Beccaris, prima di vedere finalmente abolito il dazio sui generi alimentari di prima necessità, quali farine, paste, riso.
Così, perdendo sempre più di importanza l’istituzione del dazio, e crollando quasi del tutto le mura spagnole sotto il peso del piccone dell’ammodernamento edilizio, anche la distinzione tra i due territori divenne sempre più labile, favorendosi così l’amalgamarsi di circondario esterno ed interno.
Questo tuttavia spostò solo di qualche chilometro il problema delle periferie, che anche oggi, spesso e purtroppo, vivono condizioni qualitative assai inferiori rispetto alla parte più antica e centrale della città. Ma questo forse è il destino di tutte le grandi metropoli... come direbbe, se potesse, il fu sindaco Belinzaghi.


Nel 1923 al Comune di Milano vennero annessi ben 11 Comuni limitrofi, per un totale di 110.000 abitanti.

Bibliografia

Carozzi C., La crescita urbana dall’Unità ad oggi, in Storia illustrata di Milano, a cura di F. della Peruta, vol.7, 1993
Fava F., Storia di Milano, 1997
Nasi F., 1860-1899: da Beretta a Vigoni, in “Città di Milano”, n.5, 1968
Punzo M., Il Comune fino al 1898: sindaci, giunte e problemi amministrativi, in Storia illustrata di Milano, a cura di F. della Peruta, vol.7, 1993
Reggiori F., Milano 1800-1943. Itinerario urbanistico-edilizio, 1947
Sioli Legnai E., Scorribande urbanistiche di cent’anni fa, 1940
Tiepolo M., L’urbanistica milanese dal 1876 ai giorni nostri, in Storia illustrata di Milano, a cura di F. della Peruta, vol.9, 1993

mauro colombo
febbraio 2005
ultima modifica: dicembre 2016
maurocolombomilano@virgilio.it


lunedì 22 settembre 2014

Piazza della Rosa: dal bar Scottum al monumento a Cavallotti



L'odierna piazza Pio XI è conosciuta soprattutto per l'ingresso della celebre Ambrosiana.
Un tempo, vi si affacciava la chiesa dedicata a S.Maria della Rosa, che dava anche il nome alla piazza.
Qui aveva le sue vetrine il famoso bar-bottiglieria Scottum, dal nome del liquore inventato dal suo proprietario.





Il liquore era composto con Aloe succo trino (ricavato dall’aloe), dalla radice Colombo (Iatrorrhiza palmata, dal sapore amarissimo e piccante) e da rabarbaro . (“Le droghe in fusione nello spirito per giorni 8, dopo si colano e si unisce il vino e lo zucchero bruciato”).
Nel 1906, al centro della piazza, fu inaugurato il monumento dedicato all'avvocato socialista Felice Cavallotti, opera dello scultore Ernesto Bazzaro.




Con l'avvento del fascismo, il monumento fu rimosso e dimenticato per anni in un magazzino comunale.
Dopo la seconda guerra mondiale, per rimediare alla distruzione (dovuta ad un bombardamento) di un altro monumento, quello dedicato a Giacomo Medici del Vascello,  situato in via Marina, dai depositi comunali venne recuperata l'opera al Cavallotti, che dal 1953 potè così rivedere la luce ed essere ammirata, seppur in un diverso contesto cittadino.
Un'ultima curiosità: sul muro del fabbricato che fa angolo con la via Cantù, è murata la targa commemorativa dedicata ad Amatore Sciesa (erroneamente indicato come Antonio), fucilato dagli Austriaci il 2 agosto 1851, che qui aveva dimora con la famiglia (e che, scortato al patibolo, avrebbe pronunciato la famosa frase: "Tiremm innanz", al gendarme che in cambio di una delazione gli prometteva salva la vita e denaro).


mauro colombo
settembre 2014
maurocolombomilano@virgilio.it



giovedì 18 settembre 2014

Le cascine di Milano: antiche testimonianze di un mondo contadino

Genesi ed evoluzione della “cascina”

A partire dal X secolo la presenza di cascine è attestata nella campagna milanese o addirittura in città: si trattava per lo più di depositi per prodotti agricoli o fienili, presumibilmente costruiti in materiale deperibile, come paglia e argilla, e talvolta annessi alle abitazioni cittadine.
Queste costruzioni, a partire dal XIII secolo, iniziarono a caratterizzarsi come strutture insediative composite, fatte di edifici di abitazione e rustici, con una diffusione sempre maggiore, come ebbe modo di testimoniare anche Bonvesin de la Riva nel 1288 (Bonvesin de la Riva, De magnalibus Mediolani, 1288, testualmente scriveva: “...sunt mansiones extraordinarie, quarum quedam molandina, quedam vulgo cassine vocantur, quarum vix possem perpendere numerum infinitum” -Cap. II, numero X).
Ma già nel 1207, ad esempio, le numerose cascine “de la Bazana” (a sud di Milano, nella Pieve di Cesano Boscone), erano di proprietà di vecchi ceti aristocratici, e ospitavano i “cassinari” ai quali era stata affidata la conduzione dei fondi.
La “Compartizione delle fagie”, una fonte fiscale del 1345 riguardante la suddivisione degli oneri tributari fra tutti i proprietari che avevano possedimenti lungo le strade che dalla parte meridionale della città si dipartivano verso il contado, costituisce oggi un riferimento particolarmente prezioso in quanto fornisce un vasto elenco, seppur parziale, delle cascine situate sul nostro territorio.
Le cascine più vicine alle mura cittadine erano ovviamente limitate per quanto riguarda lo spazio di terreno a disposizione, come nel caso delle strutture appena fuori Porta Ticinese, caratterizzate per essere dotate di sole 60 pertiche [Nel Milanese, una pertica equivale a 654,52 metri quadrati] di terra, ma quasi sempre fornite di torchio e mulino.
Naturalmente, torchi e mulini erano presenti anche in città, dentro le mura, anche se le loro funzioni potevano non essere legate all’agricoltura. Ancora oggi alcuni toponimi viari ricordano la presenza di questi manufatti: si pensi alla via Molino delle armi (dove appunto i mulini mossi da naviglio interno erano utilizzati per la preparazione di armi), oppure alla via del torchio, al Carrobio di Porta Ticinese. Ricordava sempre Bonvesin de la Riva che i mulini in città “...plura nonagentis sunt numero, cum suis rotis” (De magnalibus..., cap. IV, numero XIIII).
Allontanandosi progressivamente dalle mura, si potevano incontrare nuclei di maggior estensione, con una tipologia di coltura anche più varia, come ad esempio nelle cascine sorte attorno al monastero di San Barnaba al Gratosoglio, dove si avevano vigneti e cereali.
Sappiamo che nel 1437, il 40% delle 1.526 pertiche delle cascine di Basmetto, della Crosta e della Torretta, appartenenti al monastero di San Barnaba, era sistemato a prato irriguo: coltura legata all’abbondanza di corsi d’acqua e già notevolmente diffusa, con ogni probabilità, in relazione allo sviluppo dell’allevamento, peraltro non sempre documentato.
Per quanto riguarda lo schema architettonico e tipologico delle cascine, sebbene in tutti i trattati di architettura vi fosse sempre una parte dedicata alla casa contadina e alla azienda agricola (si veda ad esempio Leon Battista Alberti, Sebastiano Serlio, Andrea Palladio, Vincenzo Scamozzi, fino alla trattatistica settecentesca del Milizia), non è possibile riferirci a modelli tipizzati. Possiamo invece parlare di esempi: uno dei meglio documentati è quello della cascina Roverbella nei pressi di Pantigliate, di proprietà della famiglia Amiconi. Un documento trecentesco attesta che la cascina era composta da due grossi corpi di fabbrica, uno dei quali con orientamento da settentrione a mezzogiorno. Partiamo proprio da quest’ultimo. Attenendoci a quanto indicato si possono elencare nell’ordine: due camere, la “caminata” o stanza del camino con portico e con i “solaria de supra”, quattro “cassi di cassina in quibus sunt stabia bestiarum”, cioè le stalle, che anche nella cascina moderna manterranno il medesimo orientamento. Dopo le stalle una “caxela”, probabilmente adibita alla trasformazione dei prodotti derivati dal latte, due grandi camere fornite di portico, un’altra “caminata” con portico e piano superiore. Tutto ciò costituiva un unico blocco edilizio circondato sui tre lati da un fossato, una delimitazione e al contempo una protezione che si utilizzava molto spesso in alternativa alle siepi vive o morte.
Alle spalle dell’edificio, oltre il canale, si aveva un brolo ampio otto pertiche; sul davanti la corte col pozzo e il torchio; in posizione decentrata, per evitare pericoli di incendio, il forno. A oriente, perpendicolare al primo, vi era un secondo edificio costituito da “cassi sex cassinae cupati” ossia sei cassi coperti di tegole.
Ai grandi fondi agricoli da loro controllati fin dal XIV secolo (i Brivio ad esempio nel 1397 ottennero in enfiteusi perpetua le terre del monastero di Santa Maria di Calvenzano, presso Vizzolo Bredabissi), alcune nobili famiglie milanesi riuscirono a sommare (alla fine del Settecento) quelli derivanti dagli acquisti dei terreni degli ordini religiosi soppressi.


Proprio così gli Stampa, oltre ai beni da loro già posseduti in quella zona, entrarono in possesso delle 500 pertiche del soppresso monastero di S. Vittore Grande di Milano. All’atto delle soppressione di enti ecclesiastici, ad esempio, la Repubblica Cisalpina faceva seguire l’esproprio dei loro possedimenti, che successivamente metteva in vendita per ricavarne denaro sonante, necessario per il pagamento delle spese delle truppe e per inviarlo in Francia. Con esborsi spesso vantaggiosi, molte famiglie nobili poterono così di fatto acquistare fondi ed immobili precedentemente ecclesiastici.
Accanto a questi grandi proprietari terrieri ed immobiliari, occorre ricordare come l’impennata dell’organizzazione del lavoro agricolo dell’area milanese sia una conseguenza dell’affermarsi della figura del cosiddetto fittavolo. Questi infatti, fino a quel momento intermediario e appaltatore di fondi, iniziò ad acquisire una mentalità imprenditoriale gestendo direttamente l’azienda, con contratti novennali, sfruttando lavoratori salariati, versando un affitto assai elevato ai proprietari, ma diventando di fatto esso stesso una sorta di potente padrone all’interno della cascina dove, come ricorda il Cattaneo, i salariati infatti “non conoscono ulteriori padroni”.
Così, nel corso del XVIII secolo, si conclude il processo di tipizzazione delle cascine dal punto di vista architettonico, tipologico e funzionale. Gli elementi essenziali che si individuano nella grande azienda agricola della Bassa sono: le abitazioni (quella dei salariati e quella del fittabile), i rustici e i locali per la lavorazione dei prodotti. L’impianto che racchiude tali costruzioni è a corte chiusa, quantomeno su tre lati, ma spesso anche il quarto lato veniva cintato da un muro. Il portone d’ingresso poteva trovarsi sia nel muro di cinta, quanto più spesso attraverso il blocco delle case dei salariati. L’impianto chiuso nacque prevalentemente per motivi di difesa da possibili furti e razzie, molto frequenti nelle campagne soprattutto nelle ore notturne. Una volta sprangato il portone, la cascina era quasi una fortezza.
Esistevano poi numerose vere cascine-fortezze, ovverosia fortificate con tanto di torri d’avvistamento e ponti levatoi, diffusesi soprattutto nel ‘400 e nel ‘500.


Solo a partire dalla metà del XIX secolo si abbandonò la struttura a corte chiusa, anche per l’esigenza di ampliare spesso il numero dei fabbricati, sulla scorta della diminuzione dei furti e delle violenze nelle campagne, conseguenza di migliori attività di polizia e di controllo del territorio da parte dello Stato.
All’interno della corte (come appunto venne a chiamarsi il complesso della cascina che si affaccia su di un cortile-aia, spazio comune e collettivo di lavoro) si trovano dunque le abitazioni dei contadini che occupano un fabbricato a corpo semplice stretto e allungato, privo di qualsiasi elemento decorativo.




Ogni famiglia dispone di un locale con camino a piano terra, il luogo della vita domestica, e di uno al piano superiore, entrambi dotati di due finestre giustapposte. Dalla stanza del camino si accede direttamente al solarium con una ripida scala alla fratesca che verrà eliminata quando la distribuzione a ballatoio prenderà il sopravvento. Queste abitazioni definite in alcune consegne d’affitto “cassi di casa”, nella loro ripetitività seriale assumono quasi la rigidità di un modulo, da 20 a 30 mq per locale, e sono prive di qualsiasi comodità.
Solo eccezionalmente sono dotate di fornello di cotto e di acquarolo di vivo, come risulta in una consegna del 1739. La pavimentazione della caminata era comunemente di terra o in qualche caso di cotto, mentre per il locale soprastante, lo spazzacà, vengono utilizzati “matoncini, pianele, o gerone”.
Ben differente è la casa del fittavolo o del padrone della cascina. Ubicata in una posizione che permette un controllo sull’attività interna dell’azienda, essa spicca sia per la dimensione che per alcuni elementi architettonici (il portico affacciato sull’aia e spesso una loggia) o particolari decorativi. I locali che la compongono sono numerosi e il collegamento fra piano terreno e piani superiori avviene tramite una scala interna in due andate. Anche i particolari erano curati: lo si deduce da un documento secondo cui la cucina ha “suolo di cotto e finestre, guarnerio nel muro con anta, l’acquarolo di cotto buono, camino e fogolaro di cotto”.
Spesso alla casa del fittavolo sono uniti, o quantomeno prossimi, la caneva (cioè la ghiacciaia), il locale del torchio, le dispense, la lavanderia, la casa che serve per fabbrica e, poco distante, il forno con suolo e volto di cotto.
Stalle, fienili, portici, depositi, porcilaie e pollai vengono comunemente accomunati sotto la denominazione di rustici.
L’elemento che caratterizza le cascine della Bassa è sicuramente lo stallone delle vacche, lungo da 5 a 12 cassi. Chiusi al piano terreno e aperti invece nel sovrastante fienile, detto cassina. Sui lati lunghi si trovano le mangiatoie e le piccole finestrelle e al centro del locale una corsia di passaggio per espletare i lavori di mungitura e pulizia. La stalla, per garantire un maggior calore durante l’inverno, è generalmente costruita con una altezza tanto che “un homo comune non tocchi appena col capo”, come raccomandava il Falci nel XVII secolo. Verso corte la falda del tetto si prolunga fino ad appoggiarsi sui pilastri (un portico usato come ricovero per gli attrezzi o come stalla estiva). Legato alla notevole diffusione della coltivazione della vite, il locale del torchio è presente di frequente nelle cascine di area milanese (a partire dal XVI secolo). Lo troviamo quasi sempre in prossimità della casa del fittavolo che sovrintende direttamente alla vendemmia e alle successive fasi di vinificazione.


Cartografia storica

L’individuazione delle cascine esistenti in quello che oggi è il territorio del comune di Milano è ricavabile attraverso lo studio e l’analisi della cartografia ancora reperibile, leggendo la quale è possibile non solo localizzare i vari insediamenti (non tutti ovviamente ancora esistenti), ma anche datare gli stessi, e ciò confrontando le mappe delle varie epoche al fine di individuare in quale periodo, approssimativamente, una cascina venne fondata.
Le due mappe più antiche, buona fonte per la rappresentazione delle campagne attorno a Milano, sono quelle preparate in occasione delle visite pastorali di Carlo Borromeo a partire dal 1566, che si svolsero nelle pievi di Segrate e di Cesano. Entrambe conservate presso l’Archivio della Curia Arcivescovile di Milano, sono disegni a penna su carta a mano, con inchiostro seppia.





 Nel 1600 venne invece data alle stampe la prima edizione della carta di Giovanni Battista Claricio, intitolata “carta dei dintorni di Milano per il raggio di 5 miglia di braccia milanesi” (oggi conservata presso le civiche raccolte Bertarelli; la carta ebbe due successive ristampe, nel 1659 e nel 1682). Questa mappa, molto dettagliata e con l’indicazione di tutti gli insediamenti rurali compresi in un territorio che si sviluppava nei sette chilometri di distanza dalle mura spagnole, permette di reperire tutte le cascine esistenti a questa data, avendone l’autore inserito il relativo nome.
Per l’epoca settecentesca sono utilizzabili le 2387 mappe di campagna del catasto teresiano, redatte tra il 1721 e il 1723 e volute da Carlo VI (anche se poi il complesso lavoro fu terminato solo nel 1760 sotto il governo di Maria Teresa). (Catasto teresiano, conservato presso l’Archivio di Stato di Milano, fondo mappe di Carlo VI).
La validità degli accertamenti e delle rilevazioni del catasto teresiano durarono fino alla metà dell’Ottocento, quando venne sostituito dal nuovo catasto per il Lombardo-Veneto.
L’analisi si chiude con la carta edita dal tenente Giovanni Brenna, del 1833-1842, raffigurante Milano al centro e il territorio agricolo circostante, esteso a nord fino a Sesto San Giovanni, a est fino a Peschiera, a sud fino a San Giuliano/Quinto de Stampi, ad ovest fino al borgo di Seguro (Ten. Ing. Geografo Giovanni Brenna “Dintorni di Milano”, presso le civiche raccolte Bertarelli).



Elenco delle cascine

Per visualizzare l'elenco, la descrizione e la localizzazione delle cascine presenti oggi all'interno del comune di Milano, clicca qui:  elenco cascine e loro descrizione con geolocalizzazione




 

Approfondisci sulla scomparsa Cascina Arzaga

 

Bibliografia


AA. VV., Cascine a Milano, 1987 (a cura dell’Ufficio editoriale del Comune di Milano);
AA. VV., Ad Ovest di Milano-Le cascine di Porta Vercellina, a cura dell’ass. Amici Cascina Linterno;
L. Chiappi Mauri, Il mondo rurale lombardo nel Trecento e nel Quattrocento, in La Lombardia delle Signorie, 1986;
De Carlo V., Le strade di Milano, 1998.

mauro colombo
settembre 2007
maurocolombomilano@virgilio.it