La famiglia Clerici e la loro dimora
Palazzo Clerici sorge in quella
parte più antica di Milano da dove partiva la strada per Como, nella via (oggi
Clerici) che un tempo era detta “Contrada del prestino dei Bossi”, nella
parrocchia di San Protaso ad Monachos (1).
Il palazzo milanese, vero punto di
partenza per dare lustro alla famiglia all’interno del Ducato, ebbe origine nel
1653, con l’acquisto di una non vasta ma prestigiosa “casa da nobile” messa in
vendita dai Visconti di Somma. I successivi acquisti dei lotti
adiacenti al primo nucleo permisero di ingrandire sempre più il palazzo, fino
alla sua attuale estensione, raggiunta nel 1695, quando con l’annessione
dell’ultimo caseggiato prospiciente la contrada (3)
ebbero inizio i lavori di ammodernamento e configurazione unitaria (4). Nel frattempo, il figlio Pietro
Antonio aveva acquistato il feudo di Cavenago, ottenendo contestualmente il
titolo nobiliare, poi affiancato a quello di marchese.
Benchè entrati nella nobiltà
cittadina da poco tempo (nobiltà familiare comunque rafforzata da opportuni
matrimoni, che permisero di imparentarsi coi Pallavicino), Giorgio riuscì a
diventare membro del Senato milanese, per poi ricoprire cariche anche nel
Consiglio d’Italia (organo spagnolo preposto al controllo dei possedimenti nella
Penisola).
Il palazzo raggiunse il culmine
dello splendore con Antonio Giorgio tra gli anni ’30 e
’60 del Settecento, quando ad abbellire la sfarzosa dimora vennero chiamati
numerosi artisti. La struttura definitiva si
sviluppò così attorno al cortile d’onore e al retrostante giardino rivolto verso
la via Broletto. Altri ambienti aperti costituivano i cortili di servizio, il
più interessante dei quali era senz’altro quello delle scuderie e dei depositi
per le carrozze, vero vanto e status symbol da sfoggiare tra le vie cittadine,
spesso tanto anguste da creare seri problemi di manovrabilità ad equipaggi da
sei cavalli.
Per l’accesso al piano nobile
venne progettata una sontuosa scalinata a tre rampe, caratterizzata dalla
presenza di figure antropomorfe, molto simile come stile a quella della villa
Clerici di Niguarda, attribuibile a Francesco Bolla. Dalla scala d’onore si accede al
prestigioso salone da ballo, con balconate per i musicisti. Da questo salone,
vero punto centrale delle serate mondane e dei ricevimenti che i Clerici
organizzavano con frequenza, gli invitati passavano attraverso gallerie pensate
per sfoggiare le ricchezze del casato, adorne com’erano di vere e proprie opere
d’arte.
La galleria grande
L’apice della raffinatezza venne
raggiunto nell’ambiente che Antonio Giorgio curò con maggiore attenzione e
dispendio di denaro, quella che negli inventari settecenteschi era detta
“galleria grande” o “degli intagli”. In questo spazio, affacciato sul
cortile interno, si possono così ammirare tre diverse forme d’arte tutte
sapientemente amalgamate: la pittura per il soffitto, l’ebanisteria per lo
zoccolo ligneo, ed infine l’arte serica con gli arazzi delle
pareti.
L’affresco al soffitto
Innanzitutto, nel 1740, Antonio
Giorgio commissionò un vasto affresco per il soffitto a Giovanni Battista
Tiepolo, ormai affermato pittore veneziano, che a Milano si era già fatto
conoscere un decennio prima, affrescando cinque soffitti a palazzo Archinto di
via Olmetto (5) e subito dopo decorando soffitti e pareti a palazzo Dugnani (6).
Per palazzo Clerici al Tiepolo
venne affidato un compito impegnativo: affrescare un salone che si presentava
alquanto allungato, tanto da essere chiamato appunto galleria. Tale spazio
misura 22 metri per 5, uno squilibrio dimensionale che probabilmente
il maestro veneziano non aveva ben compreso, se quello che oggi viene
considerato il bozzetto preparatorio si sviluppa secondo uno spazio meno
allungato. Probabilmente il Tiepolo dovette, una volta visionato personalmente
il soffitto, rivedere il progetto per quanto riguarda gli spazi
sfruttabili. Ne risultò in ogni caso un’opera
eccezionale e di grande impatto, tanto che persino in epoca ormai neoclassica
(quando il gusto barocco e rococò erano visti come il fumo negli occhi)
l’affresco venne elogiato anche dal segretario di Brera, Carlo Bianconi, nella
sua celebre guida (7).
Il vasto affresco rappresenta “La
corsa del carro del Sole attraverso il libero cielo abitato dalle deità
dell’olimpo e circondato dalle creature terrestri e dagli animali che stanno a
simboleggiare i continenti”. Il roboante titolo lascia presagire la quantità di
figure, di personaggi, di miti e di allegorie che il Tiepolo volle inserire nel
suo capolavoro milanese.
Il centro dell’affresco è dominato
dalla meravigliosa quadriga del Sole, preceduta dalla figura di Ermes che le
apre la via del cielo.
Leggendo l’opera partendo dal lato lungo di sinistra, la prima scena che lo spettatore incontra entrando narra il mito di Proserpina: Demetra e la compagna Flora non s’avvedono che Proserpina viene rapita dal re dell’Ade Plutone. Conferma tale chiave di lettura la presenza del pipistrello, simbolo tipico delle rappresentazioni di Proserpina. Accanto a tali figure il Tiepolo dipinse il gruppo di Dioniso, abbandonato nel suo atteggiamento più consueto, tra la fine della baldoria e l’inizio della distensione. Gli fanno contorno uva e pampini, e tra le sue gambe un satirello fa apparire una damigiana di vino.
Leggendo l’opera partendo dal lato lungo di sinistra, la prima scena che lo spettatore incontra entrando narra il mito di Proserpina: Demetra e la compagna Flora non s’avvedono che Proserpina viene rapita dal re dell’Ade Plutone. Conferma tale chiave di lettura la presenza del pipistrello, simbolo tipico delle rappresentazioni di Proserpina. Accanto a tali figure il Tiepolo dipinse il gruppo di Dioniso, abbandonato nel suo atteggiamento più consueto, tra la fine della baldoria e l’inizio della distensione. Gli fanno contorno uva e pampini, e tra le sue gambe un satirello fa apparire una damigiana di vino.
Ed ecco la prima delle allegorie dei continenti: qui abbiamo la
rappresentazione dell’Asia, dominata dalla sagoma scura di una coppia di
cammelli caricati con mercanzie orientali, quali stoffe e pennacchi. Schiarisce
l’insieme il torso nudo del cammelliere, che col braccio indica un punto
all’orizzonte, obiettivo del loro lungo viaggio.
Dopo l’Asia, ecco il secondo
continente: l’America, rappresentata da due figure umane. Un pellerossa con arco
e faretra, col tipico incarnito bruciato, e una fanciulla a lui contrapposta
dalle gote candide come la neve, rappresentante quest’ultima dei primi
colonizzatori inglesi delle nuove terre al di là
dell’oceano.
L’ultima scena di questo lato
lungo è l’allegoria del mare. Ecco dunque Teti, regina dell’oceano, e dietro di
lei uno scherzoso zafiretto che in pugno stringe un rametto di corallo. Accanto
a loro un delfino.
Il lato breve ad angolo con quest’ultima rappresentazione ospita
l’allegoria delle arti, con un putto svolazzante che regge la tavolozza dei
colori, e con un vecchio che regge una mandola (la pittura e la musica).
Accanto al putto si nota un volto, con le sembianza del Tiepolo: l’artista ha voluto inserire nell’affresco un autoritratto, cosa per lui non inusuale.
Accanto al putto si nota un volto, con le sembianza del Tiepolo: l’artista ha voluto inserire nell’affresco un autoritratto, cosa per lui non inusuale.
Il secondo lato lungo ospita subito la terza allegoria dei continenti,
quella dell’Africa. Un’enorme proboscide e due lunghe zanne fanno presagire
l’arrivo di un possente elefante, sul quale un soldato romano sembra voler
guerreggiare con alcune figure di uomini dalla pelle scurissima e dai vestimenti
variopinti. Un africano tiene un levriero al guinzaglio, bella contrapposizione
di diversi cromatismi. Vi è anche una figura femminile, che qualcuno ha letto
come la presenza di Cerere, dea delle messi e dell’abbondanza, ma la
raffigurazione di un quadrante d’orologio tra le sue mani insinua tra gli
studiosi più di una perplessità.
Ed ecco accanto l’allegoria dell’Europa. Nel gruppo di personaggi e
animali spicca un guerriero con elmo e corazza luccicanti, forse Perseo, e sullo
sfondo Posidone. Un amorino sostiene una civetta, simbolo di Minerva. Un
destriero potrebbe essere Pegaso.
E dopo l’ultimo dei continenti, il Tiepolo volle rappresentare un mito
molto conosciuto: il ratto di Venere. Quindi vediamo un carro guidato da
Saturno, che rapisce Venere, la cui bellezza è a sua volta rapita dal Tempo,
raffigurato con ali nere e falce.
L’ultima allegoria scelta dal maestro veneziano ha quali protagoniste le
divinità fluviali. Vi sono molte incertezza circa l’attribuzione del significato
di certe figure, ma a grandi linee possiamo vedere due corpi (uno è un vecchio,
l’altro di spalle un essere umano dotato di corna) che si danno la schiena e che
quindi non si vedono in volto: forse uno è l’Arno, mentre l’altro il Tevere. Due
fiumi che nascono vicini ma che poi si allontanano l’uno dall’altro, fino a
sfociare su spiagge lontane e diverse. Altri vecchi rappresentano ulteriori
divinità fluviali (ma quali?). Accanto a loro vediamo Naiadi e
pescatori.
L’affresco del Tiepolo divenne
senza dubbio il fiore all’occhiello dell’intero palazzo, certamente l’opera più
prestigiosa e spettacolare che gli ospiti di Antonio Giorgio potessero ammirare
tra tutte le meraviglie che la nobile residenza conteneva per stupire e
abbagliare. La galleria che ospitava tale magnificenza necessitava di essere
abbellita anche in ogni suo altro particolare, al fine di rendere quell’ambiente
il migliore in assoluto tra tutti quelli cosiddetti “di
parata”.
Lo zoccolo ligneo
A tal fine Antonio Giorgio commissionò ad uno dei più conosciuti ed
apprezzati ebanisti operanti a Milano la predisposizione di un alto zoccolo
ligneo che cingesse tutta la sala; ottenne come risultato una boiserie giudicata
oggi la testimonianza più spettacolare dello sfarzo e della raffinatezza
artistica raggiunti nel XVIII secolo in Lombardia per quanto concerne l’arte
dell’intaglio. Già il summenzionato Bianconi, nella sua Guida, non riuscì a
nascondere l’entusiasmo per questa favolosa testimonianza della Milano
barocca.
L’artista che realizzò tale capolavoro è da ricercarsi in Giuseppe
Cavanna (8)
(come del resto scrisse lo stesso Bianconi), molto attivo a Milano presso
importanti dimore nobiliari, che aveva già dato un’ottima prova della sua
maestria in palazzo Perego, in via Borgonuovo, dimora purtroppo distrutta dai
bombardamenti del 1943.
Il Cavanna lavorò in palazzo
Clerici in una fase già matura ed avanzata della sua carriera, e sicuramente
venne scelto grazie alle testimonianza lasciate del suo operare: non solo
boiserie naturalmente, ma salottini, specchiere, interi arredi barocchetti che
andavano ad impreziosire, come detto, le migliori residenza di
Milano. La mano del Cavanna è tra l’altro
riconoscibile in altri ambienti del palazzo, come ad esempio nella saletta del
maresciallo: sue sicuramente le porte e le sovrapporte rivestite da rilievi
dorati.
Nel salone del Tiepolo, Cavanna realizzò dunque, lungo tutto il perimetro,
eccezion fatta per gli spazi in corrispondenza delle porte e delle portefinestre
che danno sul cortile, una zoccolatura di circa ottanta centimetri di riquadri
dipinti a monocromo, oro su bianco, con scene di vita militare. La visione
dell’intera boiserie suggerisce lo svolgersi di una unica narrazione epica.
L’insieme rappresenta la
Gerusalemme liberata, e si ispira al ciclo di raffigurazioni
realizzate da Giovanni Battista Piazzetta che abbelliva l’edizione veneziane
edita nel 1745 per i tipi di Giovanbattista Albrizzi, edizione peraltro
finanziata in parte dallo stesso Antonio Giorgio Clerici.
Negli intagli si possono così
riconoscere non solo le tavole anteposte ai venti canti del poema tassiano, ma
anche le rispettive testate, i finalini e i finali. Tuttavia il Cavanna dovette
creare ulteriori scene, dato che gli spazi a disposizione superavano le scene
realizzate dal Piazzetta: in tali casi è difficile riscontrare una precisa
ispirazione artistica.
Gli arazzi
Ad Antonio Giorgio ormai non
restava, per completare sontuosamente la galleria, che trovare un adeguato
rivestimento per le pareti, che idealmente unisse in un unico insieme di
bellezza, la boiserie dello zoccolo al soffitto del
Tiepolo. Decise così di coprire gli scialbi
affreschi che fino ad allora avevano ornato le pareti con una serie di raffinati
arazzi, gli stessi che ancora oggi, fortunatamente, possiamo
ammirare.
Non sappiamo se questi vennero
comperati appositamente oppure, più probabilmente, già si trovassero nel
patrimonio familiare, esposti in altri ambienti o addirittura in altre
dimore. Di certo sappiamo che vennero
collocati utilizzando cornici recuperate altrove appositamente per tale scopo,
anche se appunto in quanto recuperate chissà dove, hanno dimensioni diverse
rispetto a quelle degli arazzi stessi, i quali vennero pertanto piegati quale
più quale meno per poter essere ricompresi in tali riquadri
lignei.
Antonio Giorgio scelse sei arazzi che avessero le giuste dimensioni per
porter essere collocati nella galleria d’onore: ne prese quattro grandi
rappresentati scene della vita di Mosè, e due più piccoli con scene guerresche
di tutt’altro tema. Dei quattro arazzi del ciclo di Mosè possiamo a ragione
ritenere che essi facessero parte di un ciclo ben più vasto, formato in totale
da otto arazzi, e ciò si evince sia dalla lettura degli inventari di palazzo sia
dal fatto che tale ciclo fosse stato prodotto in diverse serie per diverse
committenze, e in tutti i casi (o quasi) era composto da otto pezzi. Quello di
casa Clerici, per abbellire la galleria, venne così per sempre smembrato (9).
Gli arazzi del ciclo di Mosè sono
databili intorno alla seconda metà del 1600, e vennero con buona probabilità
realizzati a Bruxelles dalla mano di Jan II Leyniers (come si evince dalle firme
poste sugli arazzi stessi: I.L. b.b.). Le firme riportano ad un arazziere di
grande livello e fama, facente parte di una famiglia di importanti arazzieri e
tintori, che ha consegnato alla storia parecchie opere di altissimo livello. I
quattro incastonati alle pareti della sala del Tiepolo rappresentano Mosè al
pozzo che disseta le greggi delle figlie di Etro (lo stesso arazzo riporta
Moyses adaquat oves); Mosè davanti al faraone trasforma le verghe in serpenti
(Moyses petit populi libertatum); Mosè passa il mar Rosso (Pharao cum suis
submergitur); Battaglia contro gli Amaleciti (Moyses orante vincuntur
Amalecitae).
I restanti due più piccoli arazzi
che completavano le pareti della galleria non avevano nulla a che vedere con
momenti della vita di Mosè, anche se riportavano la sovrascritta Moyses istoria.
Appartenevano in realtà ad un ciclo di Clodoveo, come si è evinto dai cartoni
preparatori oggi conservati in Francia. Oggi ne rimane solo uno, l’altro essendo
stato rubato nel 1919 (10).
**** ****
Con la morte nel 1768
dell’artefice di cotanto splendore, il marchese Anton Giorgio, le ricchezze
familiari si rivelarono inadeguate a mantenere i costi di una dimora tanto ricca
e complessa quanto dispendiosa. L’erede Francesco mise in vendita l’immobile, ma
visti i gusti ormai mutati in campo archittettonico (la nobiltà milanese faceva
a gara nel trasformare le proprie dimore secondo i nuovi canoni del
neoclassicismo), riuscì solo ad affittare il complesso alla Corte d’Austria,
provvisoriamente rimasta senza sede adeguata in attesa dei lavori di restauro
del palazzo reale affidati al Piermarini. Così, tra il 1771 e il 1778 palazzo
Clerici ospitò balli di corte, feste, ricevimenti, importanti riunioni politiche
e visite di capi di stato di tutta Europa.
Poi, il lento ma inesorabile
declino: prima la divisione in molteplici appartamenti dati in affitto, poi
finalmente l’acquisto nel 1817 da parte dello Stato, che tuttavia vi stabilì la
sede del tribunale di terza istanza poi corte d’appello, con inevitabili e
drammatici adeguamenti degli spazi interni dovuti alle nuove esigenze (11).
Nel 1940 trasferitasi finalmente
la corte d’appello nella sua attuale sede, palazzo Clerici venne acquistato
dall’ISPI, che iniziò dopo la guerra (i bombardamenti angloamericani ovviamente
non risparmiarono l’immobile, ma grazie a precise disposizioni della
Sovrintendenza non riuscirono a lesionare l’affresco del Tiepolo) a riportare
lentamente e faticosamente gli ambienti al prestigio di un tempo, e che oggi si
possono miracolosamente ancora ammirare.
Bibliografia
D’Ancona P., Tiepolo a Milano –
Gli affreschi di palazzo Clerici, 1956;
AA.VV., Palazzo Clerici – La
proiezione internazionale di Milano
NOTE:
1- Nel Seicento la zona di porta comasina era uno dei più popolosi sestieri di Milano, organizzato attorno alla strada che dal Cordusio, passando per il Broletto, si dirigeva verso la porta dalla quale si dipartiva la strada per Como. Nella zona abitavano moltissimi comaschi, lariani, brianzoli.
1- Nel Seicento la zona di porta comasina era uno dei più popolosi sestieri di Milano, organizzato attorno alla strada che dal Cordusio, passando per il Broletto, si dirigeva verso la porta dalla quale si dipartiva la strada per Como. Nella zona abitavano moltissimi comaschi, lariani, brianzoli.
2-Castelletto è
oggi una frazione di Cuggiono, che all’epoca si divideva in Maggiore e Minore.
La famiglia dei marchesi Piantanida aveva nel 1673 completato l’infeudazione di
Cuggiono Minore, e l’anno successivo aveva rivolto la sua attenzione a Cuggiono
Maggiore. Nel comune Maggiore esistevano tre partiti: uno era favorevole alla
infeudazione da parte dei Piantanida, uno alla infeudazione da parte del
marchese senatore Carlo Clerici, ed il terzo, capeggiato da un certo Taveggia,
voleva mantenere “la libertà”, col mantenimento da parte del Regio
Demanio.
Il Clerici, offrì allo Stato solo 4.474 lire per 202 fuochi, i Piantanida 15.336 per 213 fuochi. La Regia Camera dello Stato, dovendo scegliere fra le due offerte, optò per una asta; nel frattempo, la comunità dei membri di Cuggiono Maggiore aveva chiesto espressamente di essere infeudata al marchese Clerici.
I Piantanida offrirono allo Stato per l’infeudazione ben 20.956 lire, divenute poi 28.737 lire, a fronte di quella dei Clerici di sole 7.470 lire. A questo punto il Magistrato Straordinario decise che l’offerta dei Piantanida era più vantaggiosa ed una consulta fatta per l’occasione espresse parere favorevole a che Cuggiono Maggiore fosse infeudata ai Piantanida.
Improvvisamente il Magistrato Straordinario “cambiò idea” e decise di riaprire l’infeudazione del Comune, anche di quello Minore, già infeudato ai Piantanida dal 1673.
Alla fine vi fu evidentemente un accordo: ai Piantanida venne lasciato Cuggiono Minore e Cuggiono Maggiore fu infeudato ai Clerici.
Il Clerici, offrì allo Stato solo 4.474 lire per 202 fuochi, i Piantanida 15.336 per 213 fuochi. La Regia Camera dello Stato, dovendo scegliere fra le due offerte, optò per una asta; nel frattempo, la comunità dei membri di Cuggiono Maggiore aveva chiesto espressamente di essere infeudata al marchese Clerici.
I Piantanida offrirono allo Stato per l’infeudazione ben 20.956 lire, divenute poi 28.737 lire, a fronte di quella dei Clerici di sole 7.470 lire. A questo punto il Magistrato Straordinario decise che l’offerta dei Piantanida era più vantaggiosa ed una consulta fatta per l’occasione espresse parere favorevole a che Cuggiono Maggiore fosse infeudata ai Piantanida.
Improvvisamente il Magistrato Straordinario “cambiò idea” e decise di riaprire l’infeudazione del Comune, anche di quello Minore, già infeudato ai Piantanida dal 1673.
Alla fine vi fu evidentemente un accordo: ai Piantanida venne lasciato Cuggiono Minore e Cuggiono Maggiore fu infeudato ai Clerici.
3-L’ultima
particella fondiaria acquistata fu quella di proprietà dei fratelli Sangiuliano,
liquidati con la ragguardevole somma di 22.000 lire imperiali. Precedentemente,
erano state comperate le seguenti proprietà confinanti: Canobio, nel 1691,
fratelli Visconti, 1692, Giulini già Terzaghi, 1693.
4-Non si conosce
il nome dell’architetto che ha curato i lavori e la realizzazione della facciata
del palazzo; ciò potrebbe dipendere anche dal fatto che non venne mai chiamato
un architetto che curasse l’insieme dei lavori, probabilmente organizzati
personalmente dai vari membri della famiglia. Di certo vennero chiamati numerosi
artisti, ma solo per dar vita alle varie zone dell’edificio.
5-Il
marchese Antonio Giorgio era rimasto evidentemente impressionato dagli affreschi
di palazzo Archinto, che ben conosceva: sua madre infatti era Maria Archinto,
figlia del conte Carlo Archinto, che appunto aveva chiamato per primo il Tiepolo
a Milano. Purtroppo di tali lavori non resta traccia, dopo le distruzioni della
guerra.
6-Il
Tiepolo era successivamente tornato a Milano, ma questa volta per una
committenza religiosa nella basilica di Sant’Ambrogio: nel 1737 lavorò
nella
cappella di San Vittore in Ciel d’Oro e nella attigua sagrestia delle
Messe (si
legga Serviliano Latuada, Descrizione di Milano, 1737, volume 4, pag.
302:
“...mentre nell’anno 1737 fu ristorata tutta la Cappella, con
aggiugnerle due laterai, rappresentanti l’uno il Martirio di San
Vittore, e l’altro il
Naufragio di San Satiro, fatti a tempra dal rinomato Tiepoli Dipintore
Vineziano”).
7-C.
Bianconi, Nuova guida di Milano per gli amanti delle belle arti e delle sacre e
profane antichità milanesi, edita nel 1787.
8-Giuseppe
Cavanna nacque nel 1713 nella parrocchia di San Babila, e a lui deve essere
attribuito il lavoro in palazzo Clerici, benché per anni molti studiosi
attribuissero l’intaglio ad un esponente (Giacomo o Angelo) della famiglia
Cavanna di Lodi, anche questa famosa per i propri lavori di ebanisteria.
9-Dei restanti arazzi del ciclo di Mosè che non trovarono
posto nell’ambiente del primo piano, si persero le tracce allorquando il palazzo
cominciò il suo lungo declino attraverso passaggi di mano non sempre all’altezza
del fasto che aveva rappresentato. Di certo uscirono dai beni della famiglia
Clerici nel 1818. Gli stessi tuttavia riapparvero ufficialmente in un atto di
vendita del 1896, quando il monastero di San Maurizio maggiore (che ne era
evidentemente in possesso da qualche decennio, e li esponeva durante particolari
ricorrenze liturgiche) li vendette ad Alessandro Scaimi di Intra. Questi presto
li cedette, e da allora passarono più volte di mano attraverso aste, fino ad
arrivare, in forza di una donazione, alla loro attuale sede espositiva, presso
il Virginia of Fine Arts di Richmond, dove proprio l’anno scorso sono stai
sottoposti a importante lavoro di restauro. Questi quattro
arazzi rappresentano Mosè salvato dalle acque, Mosè e il roveto ardente, Mosè fa
scaturire l’acqua dalle rocce e Mosè spezza la tavole della
legge.
10-Il furto
avvenne mentre tutti gli arazzi si trovavano a Roma, dove erano stati
trasportati, per ragioni di sicurezza, durante la prima guerra
mondiale.
11-Si pensi
solamente al fatto che, a parte la galleria del Tiepolo salvaguardata in quanto
usata come sala per adunanze plenarie, quasi ogni ambiente venne suddiviso in
più piccole stanze, cosa che accadde anche alla sala da ballo riattata a
biblioteca.
Mauro Colombo
dicembre 2008
dicembre 2008
maurocolombomilano@virgilio.it