La storia di Milano, i suoi luoghi, i suoi personaggi. Un blog di Mauro Colombo

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giovedì 12 aprile 2018

La rapina di via Montenapoleone


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Il colpo
Il ricordo dell'assalto al portavalori di via Osoppo non si era ancora assopito, quando Milano tornò alla ribalta delle cronache per un'altra, spettacolare, rapina.
Nel tiepido mercoledì pomeriggio del 15 aprile 1964, la centralissima e famosissima via Montenapoleone,  quella della gente elegante, dei turisti stranieri in città per la Fiera, dei fattorini sempre di corsa, delle signore sotto i caschi dei parrucchieri alla moda, si trasformò in una sorta di set di un film americano.
rapina montenapoleone bergamelli milano malaTutto iniziò alle 16.30, quando due Alfa Romeo Giulia bloccarono il traffico nel senso discensionale di via Montenapoleone, e in quello di intersezione da via Verri verso via sant'Andrea.  Prima che gli automobilisti e i passanti potessero realizzare cosa stesse accadendo, una terza Giulia, di colore chiaro, si arrestò davanti alla gioielleria di Enzo Colombo, al numero 12. Una quarta Giulia inchiodò fragorosamente con le ruote sul marciapiedi. Si parlò anche di una Maserati targata Varese che accostò in sant'Andrea, davanti all'imbocco di via Bagutta.
Furono sufficienti un paio di minuti perchè le rapine precedenti diventassero solo un lontano, pallido confronto.
Dall'auto ferma davanti alle vetrine del Colombo balzarono a terra quattro uomini con il volto travisato, tre dei quali fecero irruzione nel negozio. "Tutti contro il muro, alla svelta", fu la frase pronunciata, frase che entrerà nella storia della mala milanese.
Spuntò subito una calibro 9 e un mitra da sotto un impermeabile. Il gioielliere reagì d'istinto lanciando una sedia, ma i banditi, dopo aver mandato in frantumi la vetrina con una fragorosa raffica, iniziarono a far man bassa dei gioielli esposti. Per creare panico tra i passanti, i rapinatori iniziarono a sparare in aria, e a nulla valse la reazione di alcuni muratori che lanciarono mattoni da un appartamento in ristrutturazione al primo piano.
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E così, mentre i passanti e i negozianti si nascondevano terrorizzati all'interno delle botteghe, i  sette uomini d'oro sparirono a bordo delle auto, vetture che poi cambiarono durante la fuga lungo il percorso cittadino. Sul posto, rimasero le due Giulia usate per bloccare il traffico.
In serata, il Corriere d'informazione titolò: "Sparano in Montenapoleone-Rapinano 300 milioni di gioielli". Mentre il Corriere della Sera del giorno dopo: "Assalto a raffiche di mitra a una gioielleria in Montenapoleone"  "Pomeriggio di fuoco nel salotto di Milano" trasformato "di colpo in quello che sembra lo scenario di un film della serie nera francese".
Gli otto gioiellieri con vetrine sulla prestigiosa via dichiararono che nottetempo erano stati già graffiati i cristalli di Calderoni, forse per saggiarne la resistenza.
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Il risultato fu una rapina perfetta basata su tre elementi: la sorpresa, la velocità, il panico.
La carta stampata gettò subito benzina sul fuoco delle polemiche che montavano in tema di scarsa sicurezza e prevenzione. E proprio di benzina parlò il Corriere, quando sentenziò che i pattugliamenti diurni e notturni delle Pantere della Squadra Volante di PS erano stati ridotti a causa dell'aumento del prezzo dei carburanti. Senza dimenticare, continuavano da via Solferino, che da circa un mese erano stati scarcerati, per amnistie, condoni, cessazioni di pena, almeno trenta rapinatori delle più agguerrite bande del dopoguerra. Insomma, per i giornalisti il sistema preventivo si reggeva a malapena in piedi solo grazie allo spirito di abnegazione dei volenterosi uomini di via Fatebenefratelli.
Il bottino venne stimato in più di 350 milioni di lire, dato l'altissimo valore dei gioielli asportati dalla vetrina profanata.
L'elenco pubblicato dai giornali annoverava 6 anelli, uno dei quali con brillante da 14,90 carati, uno con zaffiro da 47,20 carati, 2 collier, 2 bracciali uno a firma van Cleef, 3 spille e vari orecchini.
L'aver agito tutti a volto coperto rendeva impossibile tracciare identikit dei delinquenti, ma tutti ricordavano l'abbigliamento del capobanda, quello che aveva mitragliato la vetrina: impermeabile, guanti neri e un cappello tirolese.
Sul marciapiedi, oltre ad una sessantina di bossoli di vari calibri, fu recuperato un gemello per polsini placcato in oro, di marca francese, raffigurante un orologio. Sulle auto utilizzate e poi abbandonate, vennero invece rinvenuti un manganello, un cappello marrone fabbricato a Bologna o Napoli e una borsa di pelle, naturalmente vuota.


Le indagini
Gli investigatori si convinsero presto di trovarsi davanti ad una efficiente "batteria" di importazione, sospettando di un "cugino" d'oltralpe, Albert Bergamelli, evaso da un carcere francese un annetto prima. Si trattava di un italo francese con un curriculum di tutto rispetto, che si muoveva con una banda detta il "clan dei marsigliesi".
La Questura meneghina, tentando il tutto per tutto, diffuse le foto segnaletiche dei francesi, associandole, pur senza prove, alla rapina di Montenapoleone, e chiedendo la collaborazione dei cittadini per ogni notizia utile alla loro cattura.
L'espediente funzionò, anche grazie alle soffiate di banditi locali infastiditi dalla calata dei colleghi d'oltralpe: otto giorni dopo, a Torino, venne arrestato Bergamelli, che risultò essere un vero duro durante gli interrogatori.
Ci vollero pertanto 15 mesi d'inchiesta per portare alla sbarra alcuni dei responsabili, mentre altri catturati in Francia non vennero estradati.
Ecco i sette uomini d'oro (più alcuni fiancheggiatori)  che nel giugno 1966 sfilarono davanti alla corte d'assise di Milano: oltre al Bergamelli, suo fratello Guido, Giuseppe Rossi (Jo le Maire), Gerarde Barone Didier, Louis Nesmoz, Pierre Noël e suo fratello Jean Pierre, Jaques Dupuis, Raphaël Dadoun, e il greco Panayotides (che inizialmente testimoniò quale collaboratore di giustizia). Tutti si proclamarono innocenti.
Nel 1966 arrivò la sentenza di colpevolezza, poi modificata in appello. Le pene comminate variarono fra i tre e i nove anni (rapina aggravata, furto d'auto, e poco altro). Qualcuno andò assolto, qualcuno finì dentro solo per ricettazione.
Bergamelli riuscì presto a lasciare l'Italia, terrorizzando poi l'Europa con un numero impressionante di rapine. Rientrato a Roma verso il 1973 fece parlare di se fino al 1976 quando fu arrestato e condannato con i suoi complici all'ergastolo.
Trovò la morte in carcere, nel 1982, per mano di un altro detenuto. Motivi personali, dichiarò quest'ultimo; movente politico-eversivo, scrissero altri.

Bibliografia
Corriere della Sera e La Notte (1964-1966).
Armati C., Italia criminale. Personaggi, fatti e avvenimenti di un'Italia violenta, Newton Compton

Mauro Colombo
novembre 2017 (in AA.VV. "Milano e la mala" 2017)

ultimo aggiornamento: aprile 2018
maurocolombomilano@virgilio.it