Dopo la rapina di via Montenapoleone, l'interesse della malavita per Milano, capitale economica del Paese con più di 400 agenzie bancarie sul proprio territorio, aumentò per intensità e per spavalderia.
Dopo aver archiviato il famoso "venerdì nero", cioè il 12 novembre 1965, quando una banda di delinquenti riuscì a rapinare ben tre banche in meno di 45 minuti nella zona nord della città portandosi a casa 20 milioni di lire ("Terno secco sulla ruota della rapina" scrisse il Corriere della Sera.
"Nemmeno nei tempi drammatici del dopoguerra" si era raggiunto un tal
primato), il culmine della violenza venne raggiunto il 25 settembre 1967, quando anche il patto non scritto fra guardie e ladri, che fino ad allora aveva tenuto al riparo i cittadini, saltò bruscamente, e ad andarci di mezzo furono proprio i milanesi inermi.
In quel lunedì pomeriggio tra l'estivo e l'autunnale, i banditi non guardarono in faccia a nessuno. Avevano un solo chiodo fisso: rapinare e guadagnarsi la fuga, e peggio per chi si trovava sulla loro strada.
Tanta fu la ferocia e lo sprezzo per le vite altrui, che questa volta non vi fu alcuna assoluzione bonaria, nessuna ammirazione per i rapinatori, come in passato era invece capitato. "Pomeriggio di fuoco e di sangue-Battaglia nelle vie affollate" titolerà in serata il Corriere d'informazione.
Ecco i fatti. In largo Zandonai, dietro Pagano, alle 15.15 tre banditi, volto coperto e armi in pugno, fecero irruzione nell'agenzia 11 del Banco di Napoli. Copione classico: neutralizzata la guardia, si diedero alla razzia. "Tutti fermi. Non è uno scherzo. E' una rapina, state tutti buoni per quindici secondi e vedrete che non capiterà nulla".
Al cassiere Navarra fu urlato in faccia: "Presto. Il denaro. Fai in fretta o ti brucio". Dalla cassaforte socchiusa presero il volo oltre dieci milioni di lire. Nel frattempo però, mentre due clienti venivano stesi con il calcio della pistola, un impiegato schiacciò il pulsante per le emergenze.
All'uscita, li attendeva il quarto uomo, a bordo di una Fiat 1100 blu rubata poco prima e con la quale erano arrivati.
E qui le cose iniziarono ad andare storte. La 1100 dei fuggitivi si scontrò, senza grandi conseguenze, con una Fiat 500 "civetta" della polizia. Poco dopo, sulla preda si gettarono pantere della Polizia e gazzelle dei Carabinieri.
"A Milano battaglia tra banditi e polizia" titolò in prima pagina il Corriera della Sera del
giorno dopo. "Venti minuti di terrore" continuerà l'articolista.
Piazzale Siena: muore Odone |
L'auto dei rapinatori puntò subito verso la periferia: piazza Piemonte, via Sardegna, Gambara, Bande Nere.
In piazzale Siena, cadde la prima vittima di un proiettile vagante: il camionista Virgilio Odone, che accanto a Franco Melloni si trovava nella cabina di un autocarro delle cartiere Dell'Orto. Per guadagnare la fuga, i malviventi non esitavano a far fuoco sulle auto inseguitrici, per dimostrare di essere i più forti, i meglio armati, i più bravi a sparare. Testimoni intervistati dai giornalisti dichiararono che quei pazzi mitragliavano ridendo, e ridendo uccidevano, come se si divertissero. Qualcuno affermò di aver creduto ad uno scherzo, o ad una ripresa cinematografica. Via Gulli, Perrucchetti, Rembrandt, via Osoppo, poi Zavattari, Lotto. E cadde qui la seconda, giovanissima vittima: solo 17 anni aveva Giorgio Grossi quando un proiettile lo raggiunse mentre usciva dalla metropolitana. Poi, in piazza Stuparich, Francesco De Rosa, trovatosi sulla linea del fuoco mentre era all'interno di una cabina telefonica. Quindi veloci lungo viale Serra, e verso piazza Firenze, sempre inseguiti, sempre mitragliando.
In piazzale Siena, cadde la prima vittima di un proiettile vagante: il camionista Virgilio Odone, che accanto a Franco Melloni si trovava nella cabina di un autocarro delle cartiere Dell'Orto. Per guadagnare la fuga, i malviventi non esitavano a far fuoco sulle auto inseguitrici, per dimostrare di essere i più forti, i meglio armati, i più bravi a sparare. Testimoni intervistati dai giornalisti dichiararono che quei pazzi mitragliavano ridendo, e ridendo uccidevano, come se si divertissero. Qualcuno affermò di aver creduto ad uno scherzo, o ad una ripresa cinematografica. Via Gulli, Perrucchetti, Rembrandt, via Osoppo, poi Zavattari, Lotto. E cadde qui la seconda, giovanissima vittima: solo 17 anni aveva Giorgio Grossi quando un proiettile lo raggiunse mentre usciva dalla metropolitana. Poi, in piazza Stuparich, Francesco De Rosa, trovatosi sulla linea del fuoco mentre era all'interno di una cabina telefonica. Quindi veloci lungo viale Serra, e verso piazza Firenze, sempre inseguiti, sempre mitragliando.
La Fiat 1100, tallonata da decine di auto delle forze dell'ordine, si lanciò per Corso Sempione, via Procaccini, piazza Gramsci.
Qui i quattro pazzi abbandonarono l'auto crivellata come un colabrodo, disperdendosi a piedi. Ma ecco il colpo di scena: l'intervento di Roaldo Piva, un invalido reduce di Russia che aveva assistito alla scena, fece catturare dopo una brevissima corsa il torinese Adriano Rovoletto. Piva pagherà con un mortale infarto il suo eroismo.
Il fermato, leggermente ferito, confessò subito di appartenere alla banda di Piero Cavallero, quella già tristemente famosa, quella degli operai torinesi della barriera di Milano, case di ringhiera e voglia di rivincita.
Sotto torchio, svuotò il sacco, ammettendo che il tutto era iniziato nel 1963, snocciolando l'elenco di 16 rapine (compreso il tris del venerdì nero del 1965) per quasi 77 milioni di lire di bottino, e sulla coscienza 4 morti e decine di feriti. Con lui in quel pomeriggio di follia si erano trovati, oltre al capobanda Cavallero, anche Sante Notarnicola e un (per l'epoca) minorenne, il diciottenne Donato Lopez, detto "Duccio".
Quest'ultimo fu arrestato senza fatica la mattina seguente, nella casa torinese che divideva con i genitori, dove era rientrato sperando di farla franca. La sua giovane età gli valse 12 anni di reclusione, ma in appello (nel 1971) venne assolto, passando così dietro le sbarre solo quattro anni.
I due pesci grossi erano però sfuggiti all'arresto, balzando su un tram e poi su un treno in partenza da Porta Genova, dal quale ne scesero una mezz'ora dopo, alla stazione di Mortara. Qui, come due autostoppisti qualsiasi, avevano ottenuto un passaggio fino ad Olevano.
Nelle campagne della Lomellina, Cavallero e Notarnicola vagarono per giorni come animali, braccati da almeno 600 agenti e tre elicotteri, dormendo all'aperto, in gallerie ferroviarie, in un cimitero, in casolari di fortuna.
All'alba del 3 ottobre, all'interno del casello ferroviario 4.707 da anni in disuso, presso Villabella, i due fuggiaschi si arresero ad un carabiniere avvisato da alcuni abitanti della zona.
Furono condotti a Milano il 4 ottobre, entrando nella caserma dei carabinieri di via Moscova tra due ali di folla inferocita. Cavallero si lasciò sfuggire: "Mai visti tanti carabinieri in una volta. E tutti per me. Ragazzi che drago sono. Sono proprio un capo non c'è che dire".
Grande successo di pubblico ottenne, pochi mesi dopo i fatti, la pellicola del regista Lizzani "Banditi a Milano".
Un film duro, proprio come i fatti di quel giorno. Diverso dalla pellicola comico-brillante che la rapina di via Osoppo, di altro stampo, aveva ispirato: "L'audace colpo dei soliti ignoti".
Bibliografia
Corriere della Sera, La Notte, 1967-1968
Bocca G., Il bandito Cavallero, Milano
Mauro Colombo
novembre 2017 (in AA.VV. "Milano e la mala" 2017)
ultimo aggiornamento: settembre 2018
ultimo aggiornamento: settembre 2018
maurocolombomilano@virgilio.it