In una Milano sempre più all’avanguardia, dove i lavori per la metropolitana avanzavano incuranti delle vestigia di epoche antiche, e nuovi palazzi e grattacieli spuntavano come funghi, da piazzale Lotto a viale Monza, figli di quell’idea tanto contestata che poco prima aveva permesso di inaugurare la Torre Velasca, anche la cronaca nera e lo stile delle rapine a mano armata si adeguavano piano piano al concetto di società del benessere.
Ma il vero salto di qualità, la rapina che tutti i
milanesi dell’epoca vissero e seguirono leggendo le pagine dei
quotidiani tirati al massimo, fu quella messa a segno contro un furgone
portavalori che si trovava a passare per la via Osoppo.
E siccome la città si stava riempiendo di automobili, e la
Fiat 600 segnava il trionfo dell’utilitaria, anche la “nostra rapina” ebbe
luogo sfruttando il nuovo status symbol degli italiani: le quattroruote.
Il colpo
Il capolavoro delle rapine motorizzate andò in scena la
mattina del 27 febbraio 1958, una mattina naturalmente fredda e naturalmente
passata alla storia.
Era un giovedì, e il furgoncino "blindato" della Banca Popolare di Milano aveva appena imboccato, alle 9 e 30, la via Osoppo, proveniente da piazzale Brescia e diretto in via Rubens, ove aveva sede una Agenzia che lo attendeva per il consueto carico/scarico di valuta e titoli.
Si trattava di un giro consuetudinario, che veniva svolto trisettimanalmente. Il furgone, di vecchio tipo e dotato di quattro portiere, era partito verso le 9 dalla sede centrale di piazza Meda, e aveva già scaricato parte del suo ricco contenuto in altre agenzie cittadine. Dopo l’appuntamento con la succursale di via Rubens, la successiva tappa sarebbe stata quella di via Solari.
Il veicolo era guidato da un autista accompagnato da un commesso, entrambi dipendenti dell’istituto di credito. Sul sedile posteriore sedeva invece un agente di PS, appositamente “prestato” per questi servizi di vigilanza armata ai carichi preziosi. Sulle sue ginocchia, un mitra rassicurante.
Era un giovedì, e il furgoncino "blindato" della Banca Popolare di Milano aveva appena imboccato, alle 9 e 30, la via Osoppo, proveniente da piazzale Brescia e diretto in via Rubens, ove aveva sede una Agenzia che lo attendeva per il consueto carico/scarico di valuta e titoli.
Si trattava di un giro consuetudinario, che veniva svolto trisettimanalmente. Il furgone, di vecchio tipo e dotato di quattro portiere, era partito verso le 9 dalla sede centrale di piazza Meda, e aveva già scaricato parte del suo ricco contenuto in altre agenzie cittadine. Dopo l’appuntamento con la succursale di via Rubens, la successiva tappa sarebbe stata quella di via Solari.
Il veicolo era guidato da un autista accompagnato da un commesso, entrambi dipendenti dell’istituto di credito. Sul sedile posteriore sedeva invece un agente di PS, appositamente “prestato” per questi servizi di vigilanza armata ai carichi preziosi. Sulle sue ginocchia, un mitra rassicurante.
La via Osoppo, così denominata a partire dagli anni
Trenta, benché il tracciato di stampo campestre fosse alquanto precedente, era
ed è tutt’oggi una via a doppia carreggiata, con uno spartitraffico centrale,
che all’epoca dei fatti era sterrato a tratti erboso (mentre oggi è asfaltato).
Poco prima dell’angolo con la via Caccialepori l’agguerrita banda di rapinatori, equipaggiata con ben quattro veicoli (manco a dirlo, prelevati ad altrettanti sfortunati proprietari e tutte con targhe false) attendeva di entrare in azione, passando il tempo tra una sigaretta e l’altra e maledicendo quel pungente freddo che faceva venire le dita ghiacciate.
Uno dei rapinatori, a riprova della tranquillità e freddezza, nell’attesa dell’ora X era addirittura sceso dal suo mezzo per comperarsi, in due negozi vicini, un etto di taleggio e due panini: il giovanotto evidentemente preferiva lavorare a stomaco pieno!
Poco prima dell’angolo con la via Caccialepori l’agguerrita banda di rapinatori, equipaggiata con ben quattro veicoli (manco a dirlo, prelevati ad altrettanti sfortunati proprietari e tutte con targhe false) attendeva di entrare in azione, passando il tempo tra una sigaretta e l’altra e maledicendo quel pungente freddo che faceva venire le dita ghiacciate.
Uno dei rapinatori, a riprova della tranquillità e freddezza, nell’attesa dell’ora X era addirittura sceso dal suo mezzo per comperarsi, in due negozi vicini, un etto di taleggio e due panini: il giovanotto evidentemente preferiva lavorare a stomaco pieno!
La dinamica del colpo, anche se apparentemente complessa, si
svolse ordinatamente e nell’arco di pochi minuti, e può essere ricostruita
grazie all’articolo a sette colonne del Corriere della Sera del 28 febbraio, a
firma Franco Di Bella, titolato “Il furgone blindato di una banca assalito da sette banditi armati e mascherati”.
Dunque, non appena il blindato si avvicinò
all’incrocio Osoppo/Caccialepori, una Fiat 1400 color caffelatte,
apparentemente impazzita (in realtà ebbe un banale problema ai cavi elettrici collegati per il furto) tagliò a questo bruscamente la strada, scavalcò
malamente lo spartitraffico centrale e si schiantò (dopo che l’autista si era gettato nell’erba) contro il muro del palazzo contrassegnato
dal civico numero 7.
Gli addetti al prezioso carico ebbero comprensibilmente un
attimo di smarrimento, e per pochi secondi rimasero forse fermi a guardare,
cosa che del resto fece la maggior parte dei passati presenti e dei negozianti
delle vie, attirati dal sordo rumore dello schianto.
Ma quando l’autista del blindato, forse spronato da un
brivido di terrore o da una gomitata del compare in preda ad un ormai inutile
presentimento, rimise bruscamente in moto per allontanarsi dalla zona, ecco
dalla sua sinistra sopraggiungere a forte velocità, come un ariete, un camion
OM Leoncino cassonato di colore grigio.L’urto fu tale da impedire al blindato qualsiasi tentativo di manovra: in un attimo il delinquente al volante balzò a terra, e rotto con una martellata il finestrino della portiera posteriore, portò via il mitra dell’agente di Ps, rimasto tramortito dall’impatto e ferito da una scheggia di vetro. Poi si occupò dei dipendenti della banca, anch’essi scesi in preda al terrore. Furono così sopraffatti e resi all’impotenza, mentre altri criminali sopraggiungevano a dar man forte a bordo di un furgone.
All’appuntamento si presentò anche una Giulietta Sprint, il quarto veicolo di quella che al giornalista era apparsa come una sorte di battaglia navale, un assalto piratesco.
Mentre l’uomo sceso da quest’ultima vettura teneva a bada i
curiosi con un mitra decisamente minaccioso, gli altri rapinatori si diedero da
fare per scaricare le dieci cassette metalliche della BPM, gettandole alla
rinfusa sul furgone.
E mentre gli abitanti dotati di telefono componevano il 777 (un uomo lanciò bottiglie dalla finestra di casa, mentra ad una signora indignata che disse loro di andare a lavorare, i rapinatori risposero che era quello che stavano facendo) i componenti della banda erano già pronti per darsi alla fuga, qualcuno sul furgone carico di refurtiva, qualcun altro prendendo posto sulla Giulietta.
All’incrocio abbandonarono sia la Fiat fracassata sia il Leoncino usato a mo’ d’ariete, oltre ai passanti terrorizzati, ai tre addetti al carico semisvenuti e al blindato sfondato.
E mentre gli abitanti dotati di telefono componevano il 777 (un uomo lanciò bottiglie dalla finestra di casa, mentra ad una signora indignata che disse loro di andare a lavorare, i rapinatori risposero che era quello che stavano facendo) i componenti della banda erano già pronti per darsi alla fuga, qualcuno sul furgone carico di refurtiva, qualcun altro prendendo posto sulla Giulietta.
All’incrocio abbandonarono sia la Fiat fracassata sia il Leoncino usato a mo’ d’ariete, oltre ai passanti terrorizzati, ai tre addetti al carico semisvenuti e al blindato sfondato.
Nessuno aveva visto in faccia i sette uomini, tutti coperti di passamontagna e abbigliati con tute blu da operaio.
L’unico a mostrare il volto era stato il malvivente che prima del colpo aveva fatto la sua spesa di pane e formaggio: un giovanotto alto, dai capelli rosso biondastri. Da quel volto partirono le indagini.
L’unico a mostrare il volto era stato il malvivente che prima del colpo aveva fatto la sua spesa di pane e formaggio: un giovanotto alto, dai capelli rosso biondastri. Da quel volto partirono le indagini.
Ai giornalisti non rimase che una considerazione: il colpo (definito dal
Corsera: “la più sensazionale rapina che mai la cronaca milanese abbia
registrato”, mentre La Notte in vena di paragoni sensazionalistici
scriveva: “la nostra città si è messa alla pari con Chigaco”) sembrava
ispirato a due recenti pellicole cinematografiche (la prima americana,
la seconda inglese) girate nel 1955: “La rapina del secolo”, basata su
di un fatto vero, la rapina di Boston del 17 gennaio 1950 ai danni della
sede della Brink’s inc. Bank, organizzata dal malavitoso Anthony Pino,
che aveva provveduto ad abbigliare i suoi uomini con tute da lavoro blu,
e soprattutto “La signora omicidi” con Alec Guinness a capo di un
agguerrito quintetto di rapinatori, che provvedeva ad assaltare un
furgone blindato proprio speronandolo con un’altra autovettura.
La forte similitudine con “La signora omicidi”
spingerà due famose e diffuse riviste, Gente e Epoca, ad uscire con un
articolo corredato dai più attinenti fotogrammi del film, utilizzandoli,
accompagnati da apposite didascalie, per far rivivere ai lettori il
colpo di via Osoppo.
E se Gente segnalava con preoccupazione l’incredibile sequenza di rapine
e colpi che Milano stava ultimamente subendo, di fronte ad una Polizia
sempre più inerme e impreparata (a Milano si potevano contare 40 grosse
rapine impunite su 45 dal gennaio 1956 al febbraio 1958), Epoca
segnalava, riprendendo una polemica che iniziava a montare tra gli
ambienti benpensanti, che il cinematografo non poteva essere messo sotto
accusa come troppi volevano fare, quasi fosse colpevole di
“esemplificare, se non suggerire, nuovi sistemi alla delinquenza”, in
quanto, giustamente, “questi accademici del crimine non hanno certo
bisogno del cinematografo per imparare quello che essi stessi inventano e
mettono in pratica con un aggiornamento di sistemi ed una fertilità di
innovazioni superiori a quelli di qualsiasi regista”.
Tant’è che l’anno successivo, quale seguito
dell’applauditissimo film “I soliti ignoti”, uscì nelle sale italiane,
per la regia di Nanni Loy “L’audace colpo dei soliti ignoti”, ambientato
per gli esterni nelle periferie milanesi, che, in chiave tragi-comica,
narra del fallimentare colpo ai danni di un furgone carico di soldi del
Totocalcio organizzato col sistema del finto incidente d’auto. E
Vittorio Gassman, capobanda, arrivato a Milano da Roma con la scusa di
seguire la squadra del cuore in trasferta, non faceva altro che ripetere
che tutto sarebbe andato liscio come l’olio perché era tutto
“scientifico”.
Le indagini
Il giorno dopo il fattaccio, quando l’entità del malloppo
non era ancora sicura (si parlava di cifre oscillanti tra i 30 e i 70 milioni
di lire, prevalentemente in contanti, titoli e assegni prontamente incassabili)
il dottor Fontana dell’Interpol sottolineava l’incredibile somiglianza con le
tecniche internazionali, importate direttamente dagli USA, e per la prima volta
utilizzate nella nostra città.
E poiché apparve subito chiaro che trattavasi di
una banda esperta guidata da un criminale alquanto preparato e
scientifico nei suoi piani, La Notte del 28 febbraio/1° marzo uscì
titolando: “I gangster hanno un professore e una scuola - L’accademia
della rapina - L’inaudito colpo di via Osoppo dimostra una lunga e
perfetta preparazione: tutto è stato calcolato e previsto - A capo della
banda deve esserci una mente e alle spalle una vasta organizzazione”.
Montò poi una spinosa polemica, avanzata dagli ambienti
della Questura: l’insufficienza delle scorte ai furgoni delle banche, e il loro
eccessivamente prevedibile giro centro-periferia, quasi sempre uguale e sempre
negli stessi orari. Senza voler mettere in piedi quelle che vennero definite
“parate spettacolari” in uso in America (autoblindo in colonna con poliziotti
motociclisti), si suggerì che in futuro i furgoni blindati venissero scortati
da un’auto di agenti armati.
L’ex capo dell’Interpol (tal Dosi) auspicava addirittura che il Parlamento adottasse una legge che autorizzasse a sparare a vista sui banditi intenti ad effettuare assalti armati. Ed anche le compagnie di assicurazioni, specializzate nelle polizze a tutela dei trasporti-valori, dichiararono che tutto il settore necessitava di essere attentamente rivisto (con ovvio aumento di costi di polizza!).
L’ex capo dell’Interpol (tal Dosi) auspicava addirittura che il Parlamento adottasse una legge che autorizzasse a sparare a vista sui banditi intenti ad effettuare assalti armati. Ed anche le compagnie di assicurazioni, specializzate nelle polizze a tutela dei trasporti-valori, dichiararono che tutto il settore necessitava di essere attentamente rivisto (con ovvio aumento di costi di polizza!).
Il Corriere della Sera del 1° marzo uscì col titolo in
quarta pagina: “50 milioni in contanti e 20 in titoli al portatore, il bottino
dei gangsters che hanno assaltato il furgone delle banca”. La cifra,
decisamente elevata, era dovuta anche al fatto che i banditi avevano scelto non
un giorno a caso, bensì il 27 del mese, il cosiddetto giorno di “san paganino”,
quando cioè venivano pagati gli stipendi.
Secondo le prime indagini, i rapinatori (ribattezzati i
fantasmi in tuta blu) dopo l’azione si erano volatilizzati nella zona di
Lorenteggio. Qui infatti, in un prato all’altezza del numero 209, erano state
trovate quattro delle valige asportate dal blindato, mentre altre quattro erano
state ripescate in un canale in via Giordani, al Giambellino. Un’altra alla
cava Cabassi, in via Bisceglie 90, e l’ultima all’angolo Bisceglie/Lorenteggio
(ovviamente vuote, tranne una piena di titoli “inesigibili”). Anche il furgone
della rapina fu presto rinvenuto, in abbandono, sempre al Lorenteggio, purtroppo senza impronte digitali.
Nella giornata saltò fuori anche un curioso particolare: la mattina della rapina, circa un’ora prima, un venditore ambulante di Baggio aveva visto, attorno ad un’auto e un camion, un gruppo di persone indaffarate a vestirsi con tute da lavoro.
Fu inoltre accertato che un’auto era stata rubata a Bergamo qualche giorno prima, mentre il furgone della fuga asportato ad un macellaio di via Washington 80, la sera prima.
Nella giornata saltò fuori anche un curioso particolare: la mattina della rapina, circa un’ora prima, un venditore ambulante di Baggio aveva visto, attorno ad un’auto e un camion, un gruppo di persone indaffarate a vestirsi con tute da lavoro.
Fu inoltre accertato che un’auto era stata rubata a Bergamo qualche giorno prima, mentre il furgone della fuga asportato ad un macellaio di via Washington 80, la sera prima.
Finalmente, domenica 2 marzo, il Corriere uscì con un bel
disegno (“ritratto parlato”) che avrebbe dovuto corrispondere all’identikit del
rapinatore sprovveduto, quello che era entrato nei due negozi di alimentari
prima del colpo (ribattezzato “l’uomo dei panini al formaggio”).
Il ritratto era banalissimo e inespressivo (tant’è che la Questura in quelle ore interrogava la bellezza di seicento persone), e la didascalia di accompagnamento diceva: “piuttosto bello, capelli rossi, viso ovale allungato, lentiggini, occhi chiari, colorito roseo, età 26-30 anni, accento settentrionale”. E il negoziante che lo aveva visto disse che gli ricordava addirittura Anthony Perkins.
Il ritratto era banalissimo e inespressivo (tant’è che la Questura in quelle ore interrogava la bellezza di seicento persone), e la didascalia di accompagnamento diceva: “piuttosto bello, capelli rossi, viso ovale allungato, lentiggini, occhi chiari, colorito roseo, età 26-30 anni, accento settentrionale”. E il negoziante che lo aveva visto disse che gli ricordava addirittura Anthony Perkins.
A smorzare comunque facili entusiasmi ci pensava
l’ispettore
generale capo di PS, Vincenzo Agnesina, che alla stampa rilasciava la
seguente
dichiarazione: “Miracoli non se ne possono fare. (…) Molto potrà fare la
collaborazione di tutti gli onesti”. E la cittadinanza poteva stare
tranquilla perché come titolava La Notte, c’erano: “4000 uomini a caccia
dei banditi - Non vogliamo che Milano diventi la capitale della
rapina”.
Da questo momento, iniziarono a circolare varie ipotesi e
var sospettati furono fermati ma poi sempre rilasciati.
Gli sforzi dei primi giorni si incentrarono su una banda francese, che l’anno precedente aveva assaltato il Credit Lyonnais, e i cui componenti si erano travestiti con tute da operaio.
Ma quando il 6 marzo i cittadini vennero a sapere che le tute usate per la rapina erano state trovate nell’Olona (interessato dai lavori di copertura e quindi prosciugato) all’altezza del numero 9 di via Roncaglia, e che le etichette delle stesse rimandavano ad una ditta tessile di Modena (“Casa della tuta Malpighi, tessuti e confezioni, via dei servi 32”), l’idea che prese sempre più piede fu quella che ci si trovava a dover fare i conti con malviventi nostrani, altro che emuli di Lupin!
Gli sforzi dei primi giorni si incentrarono su una banda francese, che l’anno precedente aveva assaltato il Credit Lyonnais, e i cui componenti si erano travestiti con tute da operaio.
Ma quando il 6 marzo i cittadini vennero a sapere che le tute usate per la rapina erano state trovate nell’Olona (interessato dai lavori di copertura e quindi prosciugato) all’altezza del numero 9 di via Roncaglia, e che le etichette delle stesse rimandavano ad una ditta tessile di Modena (“Casa della tuta Malpighi, tessuti e confezioni, via dei servi 32”), l’idea che prese sempre più piede fu quella che ci si trovava a dover fare i conti con malviventi nostrani, altro che emuli di Lupin!
Venne dunque ascoltato il titolare della ditta modenese, il
quale si ricordò di aver venduto pochi giorni prima del colpo una partita di
tute da operaio ad un ragazzo italiano, di cui non sapeva il nome.
Analizzando invece l’auto fracassata lasciata dai rapinatori dopo lo schianto, si arrivò ad identificare il meccanico che fece un controllo generale, una sorta di revisione, proprio due giorni prima dell’assalto.
Il 17 marzo, due importanti novità: forse non essendo chiara la loro posizione, vennero fermati per accertamenti sia l’autista che il commesso della BPM; ma dopo cinque giorni, nulla emergendo a loro carico, vennero rilasciati. Inoltre, venne ripescato nel Naviglio pavese, da operai che approfittavano della secca per pulire il fondo all’altezza del civico 87 dell’Alzaia, il mitra sottratto all’agente di scorta. Il reperto fu subito inviato alla Scientifica della caserma Garibaldi di piazza sant’Ambrogio, per i rilievi del caso.
Analizzando invece l’auto fracassata lasciata dai rapinatori dopo lo schianto, si arrivò ad identificare il meccanico che fece un controllo generale, una sorta di revisione, proprio due giorni prima dell’assalto.
Il 17 marzo, due importanti novità: forse non essendo chiara la loro posizione, vennero fermati per accertamenti sia l’autista che il commesso della BPM; ma dopo cinque giorni, nulla emergendo a loro carico, vennero rilasciati. Inoltre, venne ripescato nel Naviglio pavese, da operai che approfittavano della secca per pulire il fondo all’altezza del civico 87 dell’Alzaia, il mitra sottratto all’agente di scorta. Il reperto fu subito inviato alla Scientifica della caserma Garibaldi di piazza sant’Ambrogio, per i rilievi del caso.
Intanto la Questura (tra le testimonianze del meccanico, del
venditore di tute, dell’ambulante di Baggio) cominciò a far circolare in tutta
Italia alcuni ritratti segnaletici dei probabili colpevoli, finchè, il 29 e il
30 marzo, i giornali prima parlarono del fermo di alcuni Italo-francesi
probabilmente implicati, poi titolarono “siamo ad un punto cruciale”.
Gli arresti
E finalmente, dalla prima pagina del Corriere della Sera del
1° aprile, Milano e l’Italia appresero: “Arrestati e confessi i rapinatori di
Milano – Il questore annuncia il successo dell’ardua operazione contro i
banditi che assalirono il furgone della Banca in via Osoppo”, con tanto di foto
del questore Lo Castro e del capo della squadra Mobile, Zamparelli, che
mostrano un campionario delle armi sequestrate ai delinquenti.
Il commissario capo Paolo Zamparelli poteva essere
orgoglioso del risultato raggiunto, e difatti fu visto dalla stampa come
l’eroe che risolse il caso. All’epoca quarantasettenne, dirigeva
la squadra mobile di Milano da ben 14 anni. Alto, magro, brizzolato coi
capelli impomatati, non era certo il poliziotto che i lettori di romanzi
gialli si aspettavano.
A lui si era affiancato nelle indagini il commissario Nardone, che aveva
già partecipato alle indagini nell’efferato caso del massacro di Rina
Fort, del 1947. Ebbe una brillante carriera, che terminò, volente o
nolente, allo scalo di Linate col compito di contrastare i dirottamenti,
ultima tappa prima della pensione, quando ormai la nuova criminalità
milanese (fatta di nomi come Vallanzasca e Turatello) non faceva più per
lui, abituato com’era ad un codice d’onore non scritto ma rispettato
dalle “guardie” e dai “ladri”.
Il pomeriggio del giorno precedente, infatti, si era tenuta
una concitata conferenza stampa, in cui le forze dell’ordine avevano comunicato
di aver arrestato cinque componenti della banda, e di essere sulle tracce dei
restanti due.
Epoca
andò nelle edicole col numero del 6 aprile dedicato agli arresti e ai
protagonisti dell’intera vicenda. Scriveva l’articolista: “Gli uomini
che la Squadra Mobile milanese ha giudicato responsabili della clamorosa
rapina di via Osoppo non abitavano in case malfamate e oscure, in una
casbah di quelle care ai gusti del cinema neorealista. Vivevano tutti
come normali borghesi, come tanti impiegati che al 27 di ogni mese
ritirano la busta dello stipendio”.
Epoca volle scandagliare le loro vite e i loro affetti, con un taglio
che forse oggi sarebbe giudicato di cattivo gusto, basti pensare
all’enorme foto dell’anziana e malata suocera di uno degli arrestati,
avvisata sulla porta di casa dai giornalisti e dai fotografi di quanto
aveva commesso il genero, ritratta sgomenta e piangente con un
fazzoletto sulla bocca; la didascalia impietosa dice: “Quando si è
riavuta dalla terribile emozione, nel suo volto è rimasto inciso il
segno del terrore. Come una bimba disperata ripeteva Non c’entro, sono
innocente. E poi ripensava alla nipotina di soli sedici mesi”.
Con le manette ai polsi si ritrovarono dunque Ugo
Ciappina, trentenne, al momento dell’arresto ritenuto il capobanda e
l’ideatore del piano, già facente parte della Banda dovunque, capeggiata
da tal Zanotti, famosa in città per altri colpacci degni di grandi
menti criminali, passata alle cronache per la rapina alla gioielleria di
via Bigli. Da ragazzo, sempre il primo della classe, ricordato da un
compagno lasciatosi intervistare come uno che aveva un cervello
svizzero. Cresciuto nel cuore della vecchia Milano, era fedele
sostenitore di un partito dell’estrema destra.
Poi Luciano De Maria, che abitava con mamma e
moglie in una villetta malmessa in via Tiepolo 33, ragazzo di grandi
speranze, infrante dall’intervento della polizia.
Arnaldo Gesmundo, detto Jess il bandito, ventottenne figlio dei portinai dello stabile di via Washington 78; la madre aveva sempre un sorriso per tutti gli inquilini, ma dopo aver appreso la verità sul figlio “si è chiusa nel suo dolore, non parla, non risponde, è assente: i suoi occhi guardano nel vuoto. Ha due figlie sposate che vivono nell’onesta normalità. Ora sarà difficile rispondere con un sorriso al saluto degli inquilini”.
Ferdinando Russo detto Nando il terrone, di 45 anni, residente con moglie e due figli (il grande, ventenne, già pizzicato per una rapina in un bar di piazza Siena) in via Preneste 4, ritenuto fuori dalla pareti domestiche un vero signore.
Arnaldo Bolognini 30 anni residente in via Montegani 6, una casa nuova arredata con gusto, che nella rapina aveva avuto il compito di guidare il camion usato come ariete, sposato, padre di una bimba di un anno e mezzo. In attesa di finire al fresco (si diceva fosse una questione di ore o al massimo di pochi giorni) c’erano poi Enrico Cesaroni detto il droghiere, abitante in via Chinotto 40, il luogo ove la banda aveva portato la refurtiva dopo il colpo ed Eros Castiglioni, ex pugile e ladro d’auto, dongiovanni e sciupafemmine, conosciuto come bravo ragazzo dalle parti di Pontecaffaro, sul lago d’Indro, ove trascorreva meravigliose giornate tra le sue due passioni: la pesca e le donne.
Il giorno dopo gli arresti, La Notte uscì titolando “Tenta il suicidio uno dei banditi - Luciano De Maria si sarebbe tagliato i polsi durante una violenta crisi”. In ogni caso, lo stesso quotidiano, tirando le somme dell’intera vicenda, affermò: “Zero ai professori della rapina - L’incubo è finito: trenta e lode alla polizia”.
Arnaldo Gesmundo, detto Jess il bandito, ventottenne figlio dei portinai dello stabile di via Washington 78; la madre aveva sempre un sorriso per tutti gli inquilini, ma dopo aver appreso la verità sul figlio “si è chiusa nel suo dolore, non parla, non risponde, è assente: i suoi occhi guardano nel vuoto. Ha due figlie sposate che vivono nell’onesta normalità. Ora sarà difficile rispondere con un sorriso al saluto degli inquilini”.
Ferdinando Russo detto Nando il terrone, di 45 anni, residente con moglie e due figli (il grande, ventenne, già pizzicato per una rapina in un bar di piazza Siena) in via Preneste 4, ritenuto fuori dalla pareti domestiche un vero signore.
Arnaldo Bolognini 30 anni residente in via Montegani 6, una casa nuova arredata con gusto, che nella rapina aveva avuto il compito di guidare il camion usato come ariete, sposato, padre di una bimba di un anno e mezzo. In attesa di finire al fresco (si diceva fosse una questione di ore o al massimo di pochi giorni) c’erano poi Enrico Cesaroni detto il droghiere, abitante in via Chinotto 40, il luogo ove la banda aveva portato la refurtiva dopo il colpo ed Eros Castiglioni, ex pugile e ladro d’auto, dongiovanni e sciupafemmine, conosciuto come bravo ragazzo dalle parti di Pontecaffaro, sul lago d’Indro, ove trascorreva meravigliose giornate tra le sue due passioni: la pesca e le donne.
Il giorno dopo gli arresti, La Notte uscì titolando “Tenta il suicidio uno dei banditi - Luciano De Maria si sarebbe tagliato i polsi durante una violenta crisi”. In ogni caso, lo stesso quotidiano, tirando le somme dell’intera vicenda, affermò: “Zero ai professori della rapina - L’incubo è finito: trenta e lode alla polizia”.
La cattura era dipesa da continui pedinamenti, ma anche
dall’aver rintracciato i ricettatori e i fornitori di armi ed equipaggiamenti,
tra cui l’uomo che aveva fornito le tute, dopo essersele procurate a Modena.
Tra i vari retroscena, si disse che Ciappina avesse in serbo
il piano fin dal 1949, ed ebbe modo di elaborarlo, naturalmente, quando era
dietro le sbarre per un altro reato. Pare che avesse avuto in testa di
assaltare inizialmente un camion della Brown Boveri.
Dopo il colpo i sette uomini d’oro si spartirono il bottino proprio nell’appartamento di via Chinotto, trattenendo però solo il contante in piccolo taglio e lasciando il resto, troppo pericoloso.
L’appartamento di via Chinotto fu scelto in quanto non distante dalla via Osoppo (fu raggiunto in circa tre minuti) e dotato di box ove nascondere il furgone. Inoltre, dal box era stato facile “passare” le valige nell’appartamento, situato a piano terra. Nessuno dei vicini si era accorto di nulla.
Dopo il colpo i sette uomini d’oro si spartirono il bottino proprio nell’appartamento di via Chinotto, trattenendo però solo il contante in piccolo taglio e lasciando il resto, troppo pericoloso.
L’appartamento di via Chinotto fu scelto in quanto non distante dalla via Osoppo (fu raggiunto in circa tre minuti) e dotato di box ove nascondere il furgone. Inoltre, dal box era stato facile “passare” le valige nell’appartamento, situato a piano terra. Nessuno dei vicini si era accorto di nulla.
Sul come iniziarono a spendere il bottino (15 milioni a
testa), poi, è sempre la penna del Corriere Franco Di Bella che ci illumina:
“All’insegna delle 3 D, donne, dadi, danze”. Pare che avessero fatto una
capatina anche a Cortina, scialacquando milioni sul tappeto verde.
Luciano De Maria e Arnaldo G., invece, che si ritenevano di “stoffa migliore” e soprattutto piacenti e rubacuori, avevano preferito organizzarsi un fine settimana a Cervinia, dove si presentarono con nuovissime attrezzature sciistiche, alloggiando nelle due migliori stanza del più prestigioso hotel.
Luciano De Maria e Arnaldo G., invece, che si ritenevano di “stoffa migliore” e soprattutto piacenti e rubacuori, avevano preferito organizzarsi un fine settimana a Cervinia, dove si presentarono con nuovissime attrezzature sciistiche, alloggiando nelle due migliori stanza del più prestigioso hotel.
I soldi intanto venivano mano a mano recuperati, nonostante
i nascondigli sfruttati dai banditi fossero in taluni casi davvero geniali.
Venti milioni erano stati murati dietro alle piastrelle vicino al lavandino
della cucina di Arnaldo B., mentre sette furono rinvenuti nascosti sotto lo zerbino
dell’entrata del palazzo di via Washington, dove erano portinai i genitori
(ignari) di Arnaldo G. detto “Jess”.
Gli interrogatori estenuanti cui i cinque arrestati vennero sottoposti svelarono, come gli inquirenti avevano previsto, anche le chiavi di altri gialli cittadini: Jess e Luciano De Maria furono ritenuti colpevoli di un precedente colpo ai danni di un gioielliere, avvenuto nel giugno 1957 in via Giulio Romano.
Gli interrogatori estenuanti cui i cinque arrestati vennero sottoposti svelarono, come gli inquirenti avevano previsto, anche le chiavi di altri gialli cittadini: Jess e Luciano De Maria furono ritenuti colpevoli di un precedente colpo ai danni di un gioielliere, avvenuto nel giugno 1957 in via Giulio Romano.
Nonostante gli iniziali atteggiamenti da duri, tutti resero
ben presto piena confessione. Solo Ciappina, che gli investigatori ritenevano
essere stato il capobanda, mantenne ferma la sue versione, e che cioè tutto fu
organizzato da Luciano De Maria (verità che poi emerse al processo), e che lui si era
limitato ad imbracciare un mitra e a trasbordare le casse coi soldi. Curioso
poi, il suo alibi. Quella mattina si era fatto accompagnare dalla moglie da un
dentista dalle parti di via Osoppo, e mentre erano in sala di attesa disse alla
moglie che si sarebbe assentato qualche minuto per comperare un giornale.
Effettivamente si assentò pochi minuti, e tornò dalla moglie dopo aver compiuto
la rapina. Né lei, né il dentista, si erano accorti di nulla, e anzi rimasero
increduli di come avesse potuto partecipare alla rapina del secolo in pochi
minuti, attendendo un’otturazione al molare!
Epilogo
Nell’ottobre dello stesso anno iniziò il processo a
carico dell’intera banda e di alcuni fiancheggiatori. La sentenza di
condanna arrivò alla una e trenta del 12 novembre. Persino la
programmazione televisiva, che all’epoca terminava alle 22, prorogò la
trasmissione per poter dare la notizia all’Italia intera.
Tutti furono ovviamente condannati a svariati anni
di carcere, dovendosi tener conto, oltre alla rapina di via Osoppo, dei
precedenti penali di ciascuno e soprattutto del fatto che alcuni di essi
furono solo in quel momento ritenuti colpevoli di altri crimini
cittadini fino ad allora senza colpevole. Per l’esattezza, Ugo Ciappina
prese 17 anni e due mesi; Ferdinando R. 9 anni e otto mesi; Luciano De
Maria 20 anni e otto mesi; Arnaldo B. 12 anni e sei mesi; Arnaldo G. 14
anni e tre mesi; Enrico C. 18 anni e quattro mesi; Eros C. 11 anni e
dieci mesi. A tutti inoltre vennero comminate varie multe per centinaia
di migliaia di lire.
Quasi tutti i condannati ottenero pene comunque meno severe rispetto a
quelle richieste dalla Pubblica accusa. Il processo d’Appello ebbe luogo
tra l’8 e il 27 novembre del 1960.
Mi fa piacere infine segnalare come Luciano De Maria, dopo aver letto
questo scritto nel 2007, ha voluto precisare, durante un cordiale e lungo incontro svoltosi a Casale Monferrato, dove ha vissuto la sua vecchiaia fino alla morte avvenuta qualche anno fa, che l’intera rapina, nonostante il
grosso bottino in gioco, non vide spargimento di sangue né violenze sui
dipendenti della banca o sul poliziotto di scorta, basandosi tutto il
colpo su un piano meticoloso e decisamente geniale; nulla a che vedere
con i fatti di cronaca nera odierni, infarciti di violenza e morte per
furti e rapine da quattro soldi.
Fonti e bibliografia
I principali quotidiani dell’epoca, tra i quali i
milanesi "Corriere della Sera", e "La Notte", annata 1958, mesi
Febbraio-Aprile.
"Gente", n. 11 del 12 marzo 1958 pag. 28 e s.
"Oggi", marzo 1958
"Epoca", n. 388 del 9 marzo 1958 e n. 392 del 6 aprile 1958
"Gente", n. 11 del 12 marzo 1958 pag. 28 e s.
"Oggi", marzo 1958
"Epoca", n. 388 del 9 marzo 1958 e n. 392 del 6 aprile 1958
Inoltre, per farsi un’idea della malavita nostrana: De Maria
Luciano: Vita di un bandito, Milano, Edizioni Biografiche, con prefazione di G. Bocca.
mauro colombo
2004
aggiornamento: 2007
ulteriore aggiornamento: febbraio 2020
maurocolombomilano@virgilio.it
ulteriore aggiornamento: febbraio 2020
maurocolombomilano@virgilio.it