La storia di Milano, i suoi luoghi, i suoi personaggi. Un blog di Mauro Colombo

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mercoledì 3 maggio 2023

Le amanti di Ludovico il Moro

 

Ludovico il moro Investitura
 

Ludovico Maria Sforza ("il Moro"), quartogenito della coppia ducale che sancì il passaggio dalla signoria dei Visconti a quella degli Sforza, nacque a Milano (o a Vigevano?) nell'estate del 1452.

Ludovico il Moro Sforza
Così comunicò il lieto evento Bianca Maria Visconti al consorte Francesco Sforza, in una lettera datata 8 agosto 1452:

“(…) ho avisata la Illustre Signoria Vostra como mediante la divina gratia ho aparturito uno bello fiolo (…), se degni de pensare de metergli un bello nome ad ciò che’l supplisca in parte alla figura del puto che è il più sozo de tuti li altri”.

Senza soffermarci su come riuscì Ludovico ad ottenere il potere sul Ducato (in seguito all'assassinio del Duca reggente suo fratello, Galeazzo Maria, morto il 26 dicembre 1476, liberandosi progressivamente di suo figlio Gian Galeazzo, della moglie reggente pro tempore Bona di Savoia e del fidato consigliere-uomo ombra Cicco Simonetta), la storia ci insegna che egli divenne Signore reggente di Milano nell'estate del 1479, a 27 anni d'età.

FIDANZAMENTO E MATRIMONIO CON BEATRICE D'ESTE

beatrice d'este
Per i ben conosciuti meccanismi politici secondo i quali le alleanze tra Territori passavano per mirati e organizzati matrimoni di interesse, Ludovico si fidanzò nel 1480 con regolare contratto con Beatrice d'Este, figlia di Ercole I d'Este signore di Ferrara e di Eleonora d'Aragona. La prima scelta sarebbe stata la sorella maggiore, Isabella D'Este, ma questa risultava già promessa ad altri.

In quel momento, la fidanzata aveva 5 anni, lui 28. Nonostante Ludovico fosse turbato da tale differenza d'età, visto che avrebbe dovuto attendere circa un decennio per il matrimonio vero e proprio e quindi per avere l'opportunità di generare un erede, accettò speranzoso. 

Si registrarono fin da subito non pochi malumori e battibecchi, tra Ludovico e il suocero estense, visto che il primo voleva subito Beatrice per educarla secondo il costume milanese, mentre il suocero voleva lasciarla là dove si trovava, cioè a Napoli presso il nonno materno Ferrante re di Napoli. 

Alla fine, per accontentare almeno in parte Ludovico, si decise che la bambina avrebbe vissuto alla corte estense, in quel di Ferrara, dove i costumi e la lingua eran più simili a quelli milanesi rispetto a quelli ispano-napoletani della corte aragonese. Del resto, la piccola Beatrice parlava e scriveva in un miscuglio di catalano, castigliano e italiano.

Finalmente, il 18 gennaio 1491 (dopo un avventuroso viaggio della sposina, accompagnata dalla sorella maggiore Isabella, durato circa due settimane sul Po ghiacciato e strade impraticabili per neve e fango, da Ferrara a Milano), Beatrice e Ludovico convolarono a nozze nel castello di Pavia.

Beatrice d'Este


Il 25 gennaio del 1493 nacque il loro primogenito, Ercole Massimiliano.

Mentre il secondo, Sforza Francesco, nacque nel 1495.

Sappiamo che la coppia fu e si mostrò sempre molto innamorata, e che Ludovico tenne sempre Beatrice in immensa considerazione. Cadde per questo in grave depressione quando la giovane moglie morì dando alla luce (non vitale) il loro terzogenito, all'alba del 3 gennaio 1497 (anche se negli ultimi mesi i rapporti tra i coniugi si erano fatti alquanti freddi se non ostili a causa del comportamento di Ludovico, troppo attaccato all'amante di quel periodo).

Riepilogando le date del 400 più importanti della sua vita fin qui viste, ricordiamo che Ludovico:

- nasce nel 52

- diventa signore reggente del ducato nel 79

- si fidanza nell' 80

- contrae matrimonio nel 91

- ha il primo figlio nel 93

- ha il secondo figlio nel 95

- rimane vedovo nel 97

LE AMANTI

Ma quante altre donne Ludovico tenne presso di se, sia durante il fidanzamento, sia durante il matrimonio con Beatrice? E da queste, quanti figli ebbe oltre ai due avuti dalla consorte?

Di incertezze, ipotesi, varie letture e opinioni circa la vita e l'epoca di Ludovico sono pieni i libri di storia e gli studi anche più illustri. Quindi una premessa è doverosa: molto di quello che verrà di seguito raccontato non è sempre certo e provato, tante ricostruzioni sono ipotesi di studiosi tuttavia smentite da altri studiosi, insomma, non ci sono cose giuste o sbagliate ma tante possibili verità e tante possibili attribuzioni. Prendiamo pertanto tutto quello che si legge e si studia relativamente a questo periodo non per oro colato ma come spunto per ulteriori approfondimenti e scoperte magari clamorose.

 BERNARDINA DE CORRADIS

Iniziamo dal periodo successivo alla stipula degli accordi matrimoniali con gli Estensi. Ludovico, uomo maturo e di bell'aspetto, e dai modi intriganti, certo non poteva aspettare che la futura moglie raggiungesse un'età consona per potersi dedicare all'amore. Soprattutto aveva fretta di avere comunque un erede.

Così, prese come compagna una certa Bernardina de Corradis (o Corradi) nel 1482, e la relazione durò sicuramente anche nell'anno seguente, il 1483, come risulta da una lettera del 20 gennaio 1483 scritta da Zaccaria Saggi (al servizio della corte già dai tempi di Filippo Maria, testimone diretto dell'uccisione di Galeazzo Maria, benvoluto da Ludovico, e a tempi alterni, al servizio dei Gonzaga) e indirizzata a Federico Gonzaga. Il Saggi teneva informati i Gonzaga delle faccende milanesi, con la qualifica di "ambasciatore".

Bernardina sposò, per volontà del duca, il nobile tortonese Antonio Gentili.

bianca giovanna sforza
Il Moro ebbe dalla Bernardina una figlia, Bianca Giovanna, o forse meglio Giovanna Bianca (1482-1496), legittimata nel 1489 (quando era già sposato) come da diploma di legittimazione in data 8 novembre 1489  a firma di Gian Galeazzo Sforza (qui chiamata infatti “Dominam Johannam Blancam”).

Questa figliola fu data in sposa al prediletto Sanseverino, generale sforzesco (e tanto altro ancora) al servizio della corte. Sposando Galeazzo Sanseverino, acquisì il titolo di Signora di Bobbio, Voghera e Castel San Giovanni. E Ludovico potè così espandere i suoi territori.

La giovane primogenita di Ludovico divenne molto amica della moglie Beatrice, che subito la prese in simpatia non appena mise piede a Milano, dopo le nozze pavesi. 

La sua precoce morte, che Ludovico sintetizzò così all'archiatra Ambrogio da Rosate “nuy dubitamo che li medici, iudicando questi dolori di stomacho li habiano dato vino et altre cose calde quali li hano nosuto ala testa” (morte comunque misteriosa, repentina, inspiegabile tanto da far pensare al "solito" avvelenamento abbastanza di moda in quella corte e in quel periodo, a detta di alcuni storici) colpì tutta la corte ducale, visto che era molto amata, ma gettò nel dolore specialmente il padre Ludovico, il marito Sanseverino e persino Beatrice, che la trattava come una sorella minore.

Si è spesso e da più parti ipotizzato che il ritratto (forse eseguito da Leonardo) conosciuto come Ritratto di una Sforza (o Bella principessa), possa rappresentare proprio Bianca Giovanna.  

Ma si è anche ipotizzato (tra le tante...) che persino la Gioconda, che sullo sfondo lascerebbe intravvedere il ponte di Bobbio, altro non è che il ritratto di Bianca Giovanna, poi rivisto dopo il 1500 (quindi dopo la sua morte).

CECILIA GALLERANI

Poco dopo la relazione con Bernardina, Ludovico conosce Cecilia Gallerani, che intorno al 1485 fa la sua entrata ufficiale a Corte, come sua amante (lei aveva 14 anni).

Nel 1487 chiese e ottenne l’annullamento del matrimonio già combinato per lei dalla famiglia.

Una lettera di Ludovico permette di datare esattamente l'inizio della relazione amorosa: i due iniziarono a frequentarsi tra la fine del 1484 e gli inizi del 1485. Infatti una lettera di Ludovico datata 9 luglio 1485, e indirizzata «cardinali Vicecomiti», ossia diretta al fratello Ascanio che era a
Roma dopo aver conseguito il cappello cardinalizio, menziona espressamente la presenza di Cecilia, per la quale Ludovico chiede un piacere al fratello cardinale: far avere al di lei fratellino l'abbazia di Casteggio ("
chiede che sia dato a suo fratello Galeazzo Gallerani il beneficio dell’abbazia di Casteggio che sta per rendersi libero a causa della malattia dell’attuale abate e che vale circa 600 lire l’anno. Vi esorto a fare il possibile per ottenere il beneficio dal papa quando sarà disponibile, perché è il primo piacere che la fanciulla mi chiede e vorrei accontentarla").

dama ermellino, leonardo da vinci cecilia gallerani
Si tratta probabilmente di una bozza di lettera mai spedita, forse scritta solo per far credere all'amante che il suo signore si stava davvero attivando per far arrivare una raccomandazione nei confronti del di lei fratello, ma in ogni caso attesta che i due fossero amanti da almeno qualche mese (visto il tipo di raccomandazione, di un certo peso).

Di Cecilia Gallerani sarebbe il ritratto di Leonardo "La dama con l'ermellino", dove l'animaletto richiamerebbe proprio il cognome di lei (Ermellino in greco è Galè -bianco-, cioè Gallerani).

Dall'unione tra Ludovico e Cecilia nacque un solo figlio, Cesare Sforza, il 3 maggio 1491 (Ludovico aveva già contratto matrimonio). 

Dovrebbe essere questo il bambino rappresentato a sinistra nella Pala Sforzesca, assieme a Ludovico e alla moglie Beatrice, oltre al loro legittimo primogenito.

Dopo il parto, Cecilia lasciò la Corte, e andò in sposa (per volere e interessamento di Ludovico) nel 1492 a Ludovico Carminati di Brembilla detto "Bergamini", dal quale ebbe numerosi, figli tra i quali Giovanni Pietro, che sposò poi la figlia Bona di Lucrezia Crivelli (altra amante che vedremo di seguito).

 ISABELLA TROTTI

Nel febbraio-marzo 1495, in concomitanza col secondo parto di Beatrice, Ludovico ebbe un'avventura con Isabella Trotti da Casate, venuta da Ferrara a Milano per fare da dama da compagnia a Isabella, sorella maggiore di Beatrice, anch'ella spesso e volentieri alla corte sforzesca.

Isabella Trotti era la figlia di Giovanni Antonio Trotti, conte, consigliere e segretario del duca di Ferrara.


LUCREZIA CRIVELLI

Nel 1495 inizia probabilmente la relazione tra Ludovico e Lucrezia Crivelli, presente a corte quale dama di compagnia di Beatrice (spesso Ludovico pescava le amanti tra le ragazze con tale ruolo, e Beatrice ne aveva sempre tante attorno a se...). 

Siamo in agosto, e in una lettera Girolamo Stanga scrive a Isabella D'Este (sorella di Beatrice), che gli aveva chiesto se sua sorella fosse a conoscenza dei tradimenti e delle amanti di Ludovico, di non preoccuparsi per tale ragione,  in quanto il Duca tradiva sì la consorte, ma "cum grande modestia et tanto cautamente del mondo".

A Ludovico diede sicuramente due figli: il primo fu Giovanni Paolo (Gianpaolo) legittimato Sforza e poi marchese di Caravaggio, e un secondo nato verso il 1500 (quando Ludovico era già decaduto) e del quale non si ha certezza sul nome e sul destino.

Diede una figlia anche al marito (Giovanni da Monastirolo), chiamata Bona, che per ironia della sorte andò in sposa al figlio di Cecilia Gallerani, Giovanni Pietro Bergamini (avuto da Ludovico Carminati di Brembilla).

Lucrezia Crivelli è identificata per tradizione con il ritratto di Leonardo da Vinci conosciuto come "La belle Ferronniere". 

Esiste inoltre un ritratto, conosciuto come "Profilo di Giovane donna", di proprietà della famiglia Crivelli e attribuibile a Leonardo, che potrebbe rappresentare la Lucrezia di Ludovico.



GRAZIOSA MAGGI

Sembrerebbe che Ludovico intrattenesse una relazione, verso il 1498, con Graziosa Maggi, detta "Pia", essendo la moglie di Ludovico Pio, condottiero di ventura (figlio di Marco Pio, Signore di Carpi e Fossoli), al soldo di Ludovico, che il Moro proprio nel 1498 inviò in soccorso dei Pisani contro i Fiorentini.

Graziosa, pure lei dama di compagnia di Beatrice,  ottenne dal Moro una generosissima dote (che non si spiegherebbe se non fosse stata la sua amante, e non perchè fosse la figlia di un suo capitano dell'esercito).

IPPOLITA FIORAMONTE

Si ipotizza l'esistenza di un'ulteriore amante, certa Ippolita Fioramonte, «tuto il suo piacere [di Ludovico] era cum una sua fante, che era donzella de la moie" quindi un'altra giovane dama di Beatrice, la quale vantò, dopo la morte della duchessa, una protezione difficilmente spiegabile da parte di Ludovico, il quale peraltro le fece una dote principesca. 

Andò in sposa al marchese Lodovico Malaspina (signore rurale di Scaldasole, in provincia di Pavia, con il suo bel castello).

ISABELLA D'ESTE

Si è spesso scritto che tra le due sorelle estensi vi fosse della rivalità, o meglio dell'invidia da parte della primogenita Isabella nei confronti della sorella minore Beatrice, che meglio si era accasata, visto il potere e il prestigio di cui godeva Ludovico, rispetto al Gonzaga (e del resto Mantova valeva, in termini di ricchezze, forse dieci volte meno di Milano).

Furono due grandi donne, ognuna a modo suo, e si è arrivati a sostenere da alcune parti che Ludovico, forse stanco di Beatrice troppo abituata al livello di agiatezza nella quale viveva alla corte sforzesca, trovasse una ambigua intesa con la maggiore Isabella, più propensa a stupirsi dei regali sfarzosi del duca, e ad essergli riconoscente.

Il Moro infatti, che era di generosa natura, faceva spesso a Isabella regali anche costosissimi: una volta le donò quindici braccia di un tessuto tanto prezioso da costare quaranta ducati al braccio. Con Isabella, insomma, riusciva a mostrarsi potente e magnanimo, mentre con la consorte questa soddisfazione non poteva ormai più averla.

Ma furono mai amanti? Ludovico in una occasione pare che si fosse vantato di un qualcosa, ma poi smentì prontamente davanti alle rimostranze dell'indignato suocero D'Este. 

Prove non se ne sono mai trovate, qualche sospetto rimane, la verità non la sapremo forse mai.

 

mauro colombo

maggio 2023

maurocolombomilano@virgilio.it

 



 

mercoledì 5 aprile 2023

Palazzo Archinto a Robecco sul Naviglio: una villa di delizia sfortunata

 

palazzo archinto robecco sul naviglio

Inizialmente furono i Visconti e poi gli Sforza (e i nobili funzionari che gravitavano attorno alla Corte) a realizzare fuori Milano delle dimore per trascorrere piacevoli periodi di svago, soprattutto nella stagione estiva.

Gli antichi castelli, perso il ruolo difensivo e militare, vennero così trasformati in residenze campestri dove banchettare, ricevere gli amici, organizzare, nei boschi contigui, battute di caccia. Si preferirono i castelli vicino alla città, per evitare viaggi troppo lunghi, ma anche castelli più distanti vennero spesso ingentiliti per tali diletti, magari prevedendo tempi di permanenza più lunghi. 

Cusago, Vigevano, Pavia, divennero vere residenze rinascimentali per il divertimento della corte sforzesca, e di conseguenza, anche i nobili al servizio dei Duchi, ricevuti in regalo, per i loro servigi, edifici, casini da caccia, o terreni, cominciarono ad imitare il modus vivendi dei loro Signori.

palazzo archinto robecco sul naviglio


Più tardi, fu un po' tutta l'alta nobiltà milanese (il patriziato) a dotarsi, per diletto ma anche per prestigio, di lussuose residenze fuori le mura pensate per deliziarsi e deliziare gli ospiti durante i mesi caldi. Quando insomma la città diventava meno interessante, e soffocante.

Tenendo sempre presente che viaggiare era scomodo, rischioso e lento, a partire dal 1500 e ancora di più nel 1600, fu privilegiata la costruzione di nobili dimore campagnole lungo il corso del Naviglio Grande. Affacciarsi sul naviglio voleva dire raggiungere le residenze comodamente con le barche, senza dover percorrere strade poco sicure e sconnesse, usando carri e carrozze. I nobili si imbarcavano in città e raggiungevano, controcorrente risalendo il naviglio, le loro dimore in poche ore, a seconda naturalmente di quanto fossero lontane da Milano.

Nell'arco di breve tempo, ne sorsero davvero tante, una sorta di gara a chi, tra i nobili, avesse la residenza estiva più grande, lussuosa e prestigiosa, con vera finalità di rappresentanza e di affermazione di potere e ricchezza.

Marcantonio Dal Re, un noto incisore attivo a Milano nella prima parte del 1700, iniziò a pubblicare un'opera monumentale (che purtroppo non riuscì mai a completare) dedicata proprio alle Residenze campestri dei nobili milanesi.  

palazzo archinto robecco sul naviglio

Grazie alla sua opera "VILLE DI DELIZIA o siano PALAGI CAMPAREGGI NELLO STATO DI MILANO Divise in SEI TOMI Con espressivi le Piante, e diverse Vedute delle medesime incise e stampate da Marc'Antonio Dal Re Bolognese In Milano, contrada si santa Margherita, all'insegna dell'aquila imperiale, 1727" (esiste un'ulteriore edizione successiva: "Alla Piazza de'Mercanti, nel Portico Superiore delle Scuole Palatine. MDCCXLIII") possiamo conoscere succintamente la storia di alcune di queste residenze, e vederne le caratteristiche attraverso le deliziose e precise incisioni.

Riuscì a rappresentare solo dodici di queste ville, essendo il suo colossale progetto naufragato. Ma all'epoca erano già molte di più, e soprattutto sul naviglio si trovavano le più famose. Ricordiamo a titolo di esempio, lungo il Naviglio partendo da Milano: il palazzo Stampa Aloardi a Gaggiano, il Cittadini Stampa ad Abbiategrasso, il Gromo di Ternengo e l'Archinto in Robecco, il Clerici a Castelletto di Cuggiono (per la famiglia Clerici, il palazzo di città e questa villa di delizia: clicca qui).

Tra tutte queste meraviglie architettoniche, veri paradisi per i fortunati che vi trascorrevano le giornate estive (tra ozio, cibo, danze e caccia) una fu certamente sfortunata tanto da non essere non solo mai completata a causa dei costi lievitati e fuori controllo, ma addirittura essere parzialmente smontata per recuperare materiale edile utile per portare avanti un palazzo di città. Questo clamoroso disastro economico (perchè questo fu, un fallimento economico legato ad una delle più antiche e nobili famiglie) fu Palazzo Archinto, che avrebbe dovuto essere la piccola Versailles di Robecco sul Naviglio "distante dalla città di Milano circa 16 miglia verso Ponente situata sul gran canale detto Naviglio".

La famiglia e il progetto faraonico

La passione per i latifondi e gli investimenti immobiliari, è da far risalire a Filippo Archinto, primo marchese di Parona e conte di Tainate (1644-1712).

In città, la nobile e antica famiglia, arricchitasi a partire dal Quattrocento grazie alla professione di banchieri, vantava numerose proprietà, tra le quali il palazzo Archinto in via Olmetto, che Filippo acquistò e fece totalmente ristrutturare su progetto di Francesco Maria Richini. Purtroppo, l'edificio, uno dei migliori esempi del barocco lombardo, fu quasi completamente distrutto dai bombardamenti alleati nel 1943. Il palazzo fu ricostruito dall'architetto Luigi Dodi tra il 1955 ed il 1967.

La famiglia Archinto, successivamente, vendette il bel palazzo agli inizi dell'ottocento, per realizzarne uno ancora più imponente in via Passione (si tenga presente che le spese per la costruzione e per l'arredo del palazzo compromisero fortemente il patrimonio della casata che si trovò ben presto in rovina, proprio come era successo secoli prima per la costruzione del palazzo di Robecco).

Ma fu proprio nella località di Robecco, piccolo borgo agricolo sul naviglio, che Filippo Archinto decise di dar prova di potere e ricchezza, anche perchè con l'avvento degli Spagnoli nel Ducato, la famiglia Archinto ottenne di essere compresa nel cavalierato di Malta e successivamente ottenne il grandato di Spagna di I classe. Era quindi fondamentale non solo avere una dimora estiva, ma soprattutto che questa mostrasse agli ospiti la potenza raggiunta dalla famiglia.

palazzo archinto robecco sul naviglio

Nel 1709 viene stipulato tra Filippo e la famiglia Barzi un contratto di acquisto di una piccola casa da nobile presso il naviglio: è il primo passo verso il grandioso progetto. Al padre Filippo (che ben poco, a parte gli acquisti iniziali, fece per vedere il cantiere partire seriamente), succedette il figlio Carlo (1670-1732), che diede il vero impulso alla grandiosa opera, sia dal lato progettuale, sia dal lato costruttivo vero e proprio.

Nel 1722 il cantiere risultava però ancora in alto mare, visto che sulle nuove mappe catastali volute da Carlo VI di Spagna non vi era traccia di un "costruito", ma solo la menzione della particella unificata nel numero 555.

Nel 1727 vide la luce, come detto, l'opera di Marcantonio Dal Re, il quale afferma che il palazzo Archinto, seppur non completato, è comunque "quasi ridotto a perfezione". Evidentemente, l'incisore peccava di ottimismo, anche perchè la sua incisione non si riferisce ad un palazzo del tutto esistente, ma sicuramente alla consultazione dei progetti su carta. 

palazzo archinto robecco sul naviglio

palazzo archinto robecco sul naviglio

Del resto il figlio Carlo si era ritrovato sommerso dai debiti (non solo dovuti a questo faraonico progetto), tanto da essersi rivolto al Senatus mediolanensis (organo giurisdizionale di massima istanza del Ducato) per chiedere le necessarie deroghe ai fedecommessi istituiti dai suoi avi, in modo da poter utilizzare i fondi avuti in eredità. Doveva anche predisporre anche le doti per le sorelle.

Carlo dovrà così abbandonare i lavori alla residenza campestre, che di fatto vide la luce nelle due parti aggettanti verso il naviglio: una completa, l'altra rimasta solo in mattonato. 

Il suo primogenito, Filippo (1697-1751) non si interessò mai al progetto, che di fatto si arrestò. E infatti un altro documento pubblico del 1750 descrive l'edificio Archinto come "fabbrica imperfetta". Sicuramente i lavori erano ben lungi dall'essere terminati, e infatti sappiamo che mai lo saranno.

Il cantiere e ciò che era stato costruito rimasero in una sorta di letargo per almeno cinquant'anni. Abbiamo una nuova menzione della tragica situazione solo nel 1805, quando viene predisposto l'inventario dei beni caduti in successione allorquando muore il figlio di Filippo, cioè Carlo (1735-1804, che morì senza eredi estinguendo la linea successoria di primogenitura). Questo inventario ci permette di sapere che tutt'attorno ai due corpi di fabbrica realizzati, vi è una massa considerevole di materiale da costruzione, tipico di un cantiere in abbandono da anni.

Possiamo dire con certezza che all'epoca risultavano innalzati l'attuale corpo esistente (oggi restaurato), il suo gemello (poi demolito) e il raccordo, incompleto, tra questi due corpi di fabbrica.

Poi tra il 1827 e il 1855 si ha la totale demolizione del corpo gemello rispetto a quello oggi superstite. Si sostiene, forse a ragione, che detta demolizione fu decisa da Giuseppe Archinto (1783-1861) per recuperare i materiali, utili a dar vita al palazzo cittadino di via Passione (cercando così di salvaguardare le proprie finanze già in sofferenza).

palazzo archinto robecco sul naviglio

L'architettura e la forma del palazzo 

Basandoci su quanto (poco) è giunto a noi rispetto al progetto iniziale, e basandoci soprattutto sulle incisioni di Marcantonio Dal Re che si era ispirato non solo alla realtà bensì ai fogli di progetto che aveva sicuramente visionato presso la committenza (era interesse della famiglia mostrare i progetti, per vedere il proprio palazzo pubblicato nell'opera editoriale in fase di realizzazione), possiamo tracciare qualche nota circa la forma e lo stile architettonico del palazzo. 

La pianta dell'intero edificio avrebbe dovuto essere a forma di H, con quattro distinti corpi edilizi (due verso la campagna, mai realizzati, e due più corti verso il naviglio, realizzati ma uno solo quello ancora oggi visibile), uniti tra loro da un corpo di fabbrica centrale con fronte verso il naviglio (realizzato solo in parte, poi demolito). 

Uno degli elementi più caratteristici e monumentali, che forse non avrebbe avuto eguali in Lombardia, è rappresentato, almeno leggendo la pianta tramandataci dall'incisione del Dal Re, dallo scalone d'onore. Un vero monumento composto da due rampe semicircolari di sicuro effetto scenografico (se fossero state realizzate, cosa che quasi sicuramente non avvenne mai). Il modello forse fu ispirato da un disegno del Palladio, pubblicato nel suo trattato di architettura (I quattro libri dell'architettura, 1570), una copia del quale era sicuramente nella biblioteca degli Archinto.

Il progetto dell'intero edificio (o almeno di gran parte) fu predisposto da Carlo Federico Pietrasanta (Abbiategrasso 1660-Milano 1735), architetto che si mosse nella Lombardia barocca e rococò, esercitandosi in quello stile che verrà poi definito barocchetto lombardo. A Milano, dei suoi lavori,  è oggi visibile la facciata curvilinea di santa Maria della Sanità, in via Durini.

Egli frequentò la famiglia Archinto per dare idee e suggerimenti anche per altri loro edifici. Inoltre, era spesso invitato a frequentare la biblioteca della famiglia, ricca di moltissimi manuali e pubblicazioni di architettura (una delle passioni di Carlo Archinto, il quale forse progettò alcune parti della villa o forse suggerì o impose certe scelte al Pietrasanta).

Oggi, come detto, l'intero palazzo è rappresentato unicamente da uno dei due corpi aggettanti verso il naviglio, quasi un superstite di un progetto vanaglorioso, incapace di tenere in conto le effettive risorse economiche necessarie, che gli Archinto, per vari motivi, non riuscirono a reperire.

palazzo archinto robecco sul naviglio


Bibliografia

Kluzer-Comincini, Ville del naviglio grande, 1997

 

mauro colombo

aprile 2023

maurocolombomilano@virgilio.it




 


mercoledì 12 ottobre 2022

Villa Scatti-Martignoni, poi Borletti, in via Monti-XX Settembre

 

Progetto villa Scatti Martignoni

A ridosso della neonata via XX Settembre, pensata e aperta con il Piano regolatore Beruto nel 1889, per agevolare la costruzione di ville destinate all'alta borghesia milanese, in cerca di ampi spazi per dimore di rappresentanza dotate di ogni comfort (ne abbiamo parlato qui), venne acquistato dalla famiglia Scatti Martignoni il lotto di terreno compreso tra le vie Rovani-Leopardi-XX Settembre-Monti

Un lotto di circa 3.500 metri quadri, dei quali 350 vennero sottoposti ad autorizzazione per edificare una villa su più piani, come da progetto in stile eclettico a firma di Francesco Solmi.

I lavori iniziarono nel 1893, appena le condizioni climatiche permisero di fatto la formazione del cantiere, vale a dire in marzo/aprile. Le maestranze, sotto la guida del capomastro Bosisio (oggi avrebbe la qualifica di direttore dei lavori), portarono velocemente avanti il lussuoso progetto e la villa fu completata nell'arco di un biennio.

Fu dotata fin da subito di allaccio all'acqua potabile e alla linea di corrente elettrica Edison. L'impianto di riscaldamento centralizzato e i numerosi bagni e ritirate per i domestici conferirono alla villa il giusto prestigio e il corretto standard d'epoca per quel tipo di costruzione alto-borghese.

Si realizzarono tre ingressi: due su via Rovani, quello principale di rappresentanza e uno, più discreto, di servizio per domestici e fornitori. Il terzo, su via Leopardi, fu pensato come carraio per le carrozze, e ben presto venne usato dalle prime autovetture.

La spesa complessiva fu di 150.000 lire.

Il passaggio ai Borletti

senatore borletti
In piena Grande Guerra, nel 1917, la villa fu acquistata da Senatore Borletti, rampollo della nota famiglia attiva nel tessile Borletti.

Senatore è uomo intraprendente, e diversifica ben presto le attività familiari, abbracciando altri campi, in primis la meccanica di precisione, fondando la Veglia (con la quale si arricchisce ulteriormente vendendo materiale all'Esercito).

Si dedicherà poi al commercio rilevando i magazzini Bocconi, trasformandoli in un magazzino di fascia medio alta e ribattezzandoli La Rinascente. Contestualmente fonda UPIM, per articoli di prezzo fisso e medio basso, puntando ad una clientela popolare.

Entra in affari anche con Mondadori, e da appassionato di sport, acquista l'Inter, divenendone presidente.

Acquistata la villa di rappresentanza, subito chiamò Piero Portaluppi, affinchè ideasse dei doverosi restauri conservativi ma necessari. 

progetto Portaluppi villa Borletti
All'inizio degli anni trenta, divenuto il Borletti senatore del Regno (di nome e di fatto, potremmo dire), e abbisognando (visto il potere -anche politico in seno al PNF- e il prestigio acquisito) di spazi di rappresentanza secondo uno stile più moderno per ricevere ospiti illustri, venne chiamato il giovane Ignazio Gardella, affinchè presentasse un progetto di radicale rinnovamento degli spazi della villa.

Il progetto definitivo è degli anni 1935-1936, e lo stesso Gardella così lo sintetizzò: "Nella trasformazione di Villa Borletti il problema era quello di creare uno spazio unitario
in una villa di tipo tradizionale fatta di ambienti separati. Ho lasciato solo i muri portanti, ho
allargato lo spazio interno sostituendo una facciata con una grande vetrata e in questo spazio
ho inserito dei setti murari che lo dividevano e ospitavano la collezione di oggetti d’arte dei
Borletti. Il piano terra è un po’ staccato dal suolo, è un particolare che distingue la struttura
portante dagli elementi portati, che fa intendere che l’edificio è appoggiato su pochi punti.
Questi in quel periodo erano princìpi sacri".

gardella progetto villa borletti

Nel maggio del 1936, a lavori terminati, la nota rivista “Casabella" dedicò al progetto
di Gardella 6 pagine ampiamente illustrate, dove lo stesso autore raccontava dei materiali utilizzati, della struttura e delle componenti del progetto. L’intervento venne riproposto nel 1937 dalla rivista “Domus.

La villa passò poi, inevitabilmente, più volte di mano, e si legò a vari nomi di ricchi e importanti imprenditori locali. Risulta pure essere stata di Berlusconi. Recentemente è stata venduta per una cifra pari a 20 milioni di euro.

 

Bibliografia 

L'edilizia moderna, 1895, volume quarto (Comitato di redazione: Beltrami più Altri);

Baglione C., Tra Mies e il Giappone. La Villa Borletti a Milano (1935-36), in “Casabella”, n.
736 (2005), pp. 8-13.

Per una biografia di Senatore Borletti, clicca qui

 

Mauro Colombo

ottobre 2022

maurocolombomilano@virgilio.it

 

mercoledì 15 giugno 2022

Quando la Vettabbia scorreva a cielo aperto in centro.

 


Il canale della Vettabbia (o Vettabia, ma anche Vecchiabbia), nasce a ridosso di piazza Vetra, grazie all'unione del canale Nirone e di altre acque che si raccoglievano sotto la Vetra, per poi dirigersi verso il sud della città.

Una relazione del 1614 (degli ingegneri Corbetta e Lucino) identificava la nascita della Vettabbia come l'unione del Nirone e di due rami d'acqua uscenti dalla fossa interna del naviglio nei pressi della torre detta dell'imperatore (al ponte delle Pioppette).

Di origine antichissima, in epoca romana serviva quale canale per il trasporto delle merci (il nome deriverebbe infatti dal termine vectabilis, cioè capace, adatto, al trasporto di cose). 

Che la Vettabbia fosse di antichissima origine e sicuramente antecedente lo scavo del naviglio Grande lo si affermò anche durante una controversia tra alcuni fruitori delle sue acque e il signore Filippo Maria Visconti, che da loro esigeva delle tasse come da tutti i fuitori del naviglio Grande (controversia degli anni 1408-1414).

La Vettabbia rappresentò per secoli il principale canale cloacale di Milano, in grado di scaricare i liquami cittadini verso sud, dove l'agricoltura ringraziava per tale apporto di azoto e di altri elementi fertilizzant.

Questo corso d'acqua, detto anche cavo Vettabbia, scorreva subito dopo il suo incile lungo una direttrice che cambiò spesso nome, fino a quando il tratto fino alle mura spagnole venne interrato.

vettabbia canale roggia cavo
 Ciò avvenne progressivamento a partire dall'ultimo quarto dell'ottocento, per concludersi con la sistemazione delle aree nate dalla copertura qualche anno prima prima dello scoppio della Grande Guerra. 

 

Nella mappa a lato, del 1814, vediamo bene lo scorrere della Vettabia in quello che all'epoca era definito Borgo del cavo Vettabbia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qui sotto, invece, una mappa del 1883. Abbiamo già i nomi delle vie Santa Croce, Vettabbia, Sambuco.

A partire dalle mappe del novecento, il corso d'acqua progressivamente sparisce, in quanto interrato, e la via Vettabbia inesorabilmente si allarga. Per poi accorciarsi e lasciare il posto al toponimo Calatafimi.

Recentemente il tratto finale verrà rinominato Aurispa.

Nelle foto seguenti possiamo vedere questo tratto di Vettabbia quando ancora era scoperto e ospitava, in Santa Croce, un mulino (azionato dal dislivello tra naviglio della fossa interna di via Molino delle armi e la Vettabbia). Vediamo poi, con lo scorrere degli anni, la Vettabbia sparire sotto la copertura stradale.
In via Santa Croce, grazie al dislivello rispetto al naviglio della fossa interna, era possibile azionare le pale di un Mulino
Ecco la Vettabbia in quella che oggi è chiamata via Aurispa
Il cantiere per i lavori di interramento
via Calatafimi così nominata dopo l'interramento della Vettabia. Si vede la caserna Emanuele Filiberto di Savoia
via Vettabia angolo Cosimo del Fante, dopo l'interramento del canale venne costruito un mercato coperto. Si vede il bel palazzo Casa Venegoni, del 1923-1927.

 

 FONTI

Bruschetti G., Raccolta delle opere idrauliche e tecnologiche, 1864

 Il Monitore tecnico, 1938, pagina 346

Mauro Colombo 

giugno 2022 

maurocolombomilano@virgilio.it

giovedì 3 marzo 2022

Il "Naviglietto" che portava i Duchi al castello di Cusago

 

castello di cusago, un tempo
castello di cusago, un tempoTra gli innumerevoli castelli visconteo-sforzeschi sparsi per la Lombardia, il Piemonte e non solo, quello più vicino a Milano è il castello di Cusago, salvo errori di calcolo. Tralasciando il suo attuale stato di abbandono al quale stanno (forse) ponendo parzialmente rimedio alcuni lavori iniziati e tutt'ora in corso, il bel castello campestre meriterebbe ben più di una rapida occhiata dall'esterno, e di poche righe scritte, ma qui ci accontenteremo di sottolineare qualche curiosità. 



bernabò visconti
Edificato per volere di Bernabò Visconti, signore di Milano, verso gli anni 1360-1369, probabilmente sul sedime già occupato da un antico fortilizio forse di epoca longobarda, il castello di Cusago non ebbe, fin dal suo progetto, alcunchè di militare. 



Assenti risultano le torri d'angolo e il fossato, a dimostrazione che la  sua posizione territoriale non aveva, all'epoca del Bernabò, alcuna utilità difensiva, piuttosto una utilità di svago e piacere. Il castello era circondato da boschi ricchi di selvaggina, vicino alla città e facilmente raggiungibile con apposita strada Ducale che usciva da Baggio passando per la località di Assiano. Il posto ideale insomma dove trascorrere i periodi estivi dedicandosi ai classici piaceri nobiliari: la caccia (che Bernabò amava a dismisura), la conversazione, la tavola. 
 
filippo maria visconti
Morto Bernabò, dopo un periodo di disinteresse, il castello ebbe una nuova vita grazie all'interessamento del duca Filippo Maria Visconti (1392-1447).

La residenza campestre, forse anche con l'aiuto di artisti dell'epoca, fu abbellita e ingentilita ulteriormente. Ma Filippo Maria andò oltre gli abbellimenti architettonici e le migliorie interne, egli pensò anche a come raggiungere facilmente il castello, da Milano, senza doversi sobbarcare il viaggio a cavallo o in carrozza, sulla sconnessa e non troppo sicura strada che da Baggio portava nel contado. 
Egli chiese ai suoi "inzegneri" di realizzare quindi una via d'acqua a lui riservata, comoda e sicura. 
A lui si deve l'escavazione di un canale navigabile, detto "Naviglietto", che dal naviglio Grande portasse direttamente a Cusago. L'incile era dalle parti di Gaggiano, più o meno dove oggi sorge la cascina Venezia. Il piccolo corso d'acqua (largo il giusto per far passare le barche ducali, dette carrette, e poco profondo, visto che tali barchini avevano scarso pescaggio) percorreva la campagna per circa 10 chilometri. Insomma un'autostrada riservata, un corso d'acqua privato che evitava al Duca scomodi scossoni. A Filippo Maria infatti bastava salire in barca a Milano e lungo la fossa interna, poi il naviglio grande, ed infine il Naviglietto, sbarcare nei pressi del castello di Cusago (esisteva una piccola, apposita darsena).

Il percorso è ancora oggi identificabile con il tracciato dell'attuale strada provinciale numero 162, che appunto unisce il naviglio Grande a Cusago, passando accanto alla cascina Naviglietto, toponimo che ricorda proprio il comodo corso d'acqua. Questa strada altro non era se non l'alzaia del Naviglietto ducale, quella percorsa cioè dai cavalli che alzavano, cioè riportavano controcorrente, i barchini del Duca. 
mappa del Claricio, si nota il naviglietto

Oggi il Naviglietto, che ancora costeggia la strada, è pressoché irriconoscibile, ridotto ad un canale di irrigazione, ben diverso da ciò che era e rappresentava un tempo.
Anche Ludovico Maria Sforza, il Moro, amò il castello di Cusago e vi apportò migliorie e abbellimenti, e probabilmente anch'egli ebbe modo di usare il Naviglietto, per raggiungerlo.
Con la fine della signoria sforzesca, e l'arrivo degli Spagnoli prima e di altre potenze straniere poi, il castello perse di interesse e passò di mano più volte, e anche il Naviglietto, caduto in disuso, si ridusse un po' alla volta ad essere il canale irriguo che vediamo oggi.

Cusago: castello e naviglietto


castello di cusago, un tempo

Mauro Colombo

marzo 2022

maurocolombomilano@virgilio.it