La peste del 1630
Prime avvisaglie dell'epidemia
Tra le numerose epidemie di peste che
flagellarono Milano lungo i suoi secoli di vita, quella del 1630 è da
considerare senz'altro la più conosciuta e
ricordata, e ciò per merito indiscusso del Manzoni, che la scelse quale cupo
sfondo alle vicende narrate nei Promessi sposi.
Anche questa epidemia, come le precedenti
(l'ultima aveva devastato la città nel 1576), non arrivò improvvisamente
nell'arco di pochi giorni, bensì si
sviluppò lentamente ma inesorabilmente dando le prime avvisaglie
moltissimi mesi prima, e prova ne è che già nel 1628 la Sanità milanese
(l’organo preposto alla tutela
della salute dei cittadini), considerate le poco rassicuranti notizie
riguardanti i contagi che dilagavano in Europa, aveva emanato una grida
per porre Milano al riparo da ogni
sorta di rischio. Successivamente, sull'onda dei racconti provenienti
soprattutto dalla Svizzera, vennero pubblicati alcuni bandi per vietare
il commercio con Friburgo e Berna.
In
marzo, ad aggravare la carestia che da qualche tempo si era abbattuta
sul Milanese, ci si
mise la guerra per la successione nel Monferrato tra la Francia e gli
Asburgo. L’esercito spagnolo pose
l’assedio a Casale, il che comporterà per i mesi seguenti, come
vedremo, pericolosi movimenti di truppe attraverso i territori di
Milano.
La carestia si abbattè con violenza sulla città nel mese di novembre, tanto che il popolo, esasperato per la mancanza di farina e pane, si solleva il giorno di san Martino, e assalta i forni e la casa del vicario di provvisione, Ludovico Melzi, in via santa Maria segreta. Il Melzi venne salvato dall'arrivo del gran cancelliere Ferrer, che lo prende in custodia portandolo in Castello.
Sul piano politico, a fine agosto, vi
fu il passaggio di consegne tra il nuovo Governatore, Ambrogio
Spinola, e l'odiato Gonzalo Fernandez de Cordova, la cui partenza fu
salutata dal popolo come una liberazione.
La carestia si abbattè con violenza sulla città nel mese di novembre, tanto che il popolo, esasperato per la mancanza di farina e pane, si solleva il giorno di san Martino, e assalta i forni e la casa del vicario di provvisione, Ludovico Melzi, in via santa Maria segreta. Il Melzi venne salvato dall'arrivo del gran cancelliere Ferrer, che lo prende in custodia portandolo in Castello.
assalto alla casa del Melzi |
Il cancelliere Ferrer porta in salvo il Melzi |
Tuttavia, tra proclami, grida e bandi inascoltati,
arrivò l'ottobre del 1629 senza che importanti e mirati provvedimenti
fossero ancora stati presi, e ciò a
causa, prevalentemente, dello scetticismo che le autorità mostravano
circa la possibilità che la peste varcasse le porte cittadine. Neppure
la morte sospetta di Alfonso
Visconti, all'epoca vicario di provvisione, smuoverà Ludovico Settala,
di cui parleremo più avanti, dalla sua ostinazione nel volere negare
l'esistenza della peste a Milano.
Del resto, in questo periodo, il registro del
lazzaretto di Porta Orientale (ufficialmente Ospedale di san Gregorio) regolarmente in funzione dall'inizio del
1500 e adibito a ricovero di malati
contagiosi, riporta soltanto tre ricoverati sospetti, prelevati dalle
rispettive abitazioni dietro segnalazione dell’Anziano di S. Babila.
La paura cominciò a diffondersi veramente solo il
12 ottobre, con la notizia che a Malgrate, il giorno prima, erano morte
dodici persone sane e robuste.
Il primo caso di peste a Milano
Il
22 ottobre 1629, proveniente da Lecco o da Chiavenna, tornò in città
Pietro Antonio Lovato, abitante in porta Orientale, nella parrocchia di
S. Babila, portando con sé molti
abiti barattati o acquistati dai fanti alemanni. Dopo tre giorni
trascorsi nella propria casa assieme ai familiari, fu ricoverato
all'Ospedale Maggiore, dove morì
nell'arco di due giorni.
Sul suo corpo, il barbiere e il capoinfermiere
rinvennero "un flegnione nel brazzo sinistro, et principio di
infiammatione sotto all'assela, pure
sinistra" (Cronaca del Settala). Pertanto si bruciarono al più presto
il letto e le sue povere cose, dopodiché i familiari dell'uomo furono
trasportati al lazzaretto per
la quarantena.
Dopo questo caso di peste conclamata, furono
pubblicate altre grida per vietare i baratti coi soldati tedeschi di
passaggio, mentre la Sanità milanese
pensò bene di introdurre l'utilizzo obbligatorio delle “bollette
personali di sanità”, una sorta di passaporto medico che accertasse la
provenienza da territori sani di
ogni persona che volesse entrare in Milano.
Più che questi blandi provvedimenti, fu il rigido inverno ad arrestare, momentaneamente, il diffondersi del contagio.
Ludovico Settala |
Il carnevale portò un periodo di spensieratezza e
festeggiamenti, durante i quali nessuno parve preoccuparsi delle
persone che, sebbene in non larga misura,
morivano di peste entro tre giorni dai primi sintomi. Ai
festeggiamenti carnevaleschi si aggiunsero quelli, ancora più sfarzosi,
in onore della nascita, avvenuta nel novembre
dell’anno precedente, dell’infante di Spagna.
Dal clima euforico non si salvava neppure il
lazzaretto, dove si organizzavano feste e balli, e si commerciava
impunemente con l’esterno. Questi eccessi,
ed altri ben più gravi, spinsero alla pubblicazione dei severi "Ordini
dell'hospitale di S. Gregorio detto lazzaretto, fatti e instituiti dai
fisici collegiati Alessandro
Tadino et Senatore Settala" (18 febbraio 1630). In ogni caso, poco
dopo, per risolvere definitivamente i problemi connessi alla disciplina,
i conservatori della città
affidarono la gestione del Lazzaretto di San Gregorio la gestione e l'organizzazione al padre cappuccino Felice
Casati.
A marzo si ebbero grandi spostamenti di truppe,
da Geradadda dirette verso il Monferrato, truppe che, nonostante gli
evidenti rischi di diffusione
incontrollata del contagio, transitavano in città, bivaccando per
giorni nelle campagne circostanti. Dalla Valsassina, inoltre, scesero
4.000 lanzichenecchi, diretti nel
novarese e nel mantovano.
Con la primavera i morti presero sensibilmente ad
aumentare, tanto che a maggio, col primo vero caldo, il lazzaretto si
mostrò incapace di accogliere altri
appestati. Si ipotizzarono dunque varie soluzioni, tra le quali
requisire il borgo della Trinità, fuori Porta Ticinese, per adibirlo a
ricovero dei sospetti, lasciando il
lazzaretto solo per i malati accertati.
Inoltre, si ventilò l'ipotesi, poi scartata, di
sigillare l’intero borgo di Porta Orientale, la zona di Milano col più
alto numero di malati e di
decessi.
Caccia agli untori
Proprio quando il cardinale Federico Borromeo
iniziava ad organizzare processioni cittadine per invocare l’aiuto
divino contro il flagello, tra il popolo
iniziò a diffondersi la voce circa la presenza un po' ovunque di
loschi personaggi che, muniti di veleni e intrugli vari, andavano
ungendo mortalmente le zone di maggior
passaggio. Il 17 maggio, durante la consueta processione serale
all’interno del duomo, alcuni fedeli videro distintamente alcune persone
nell'atto di ungere la balaustra che
all’epoca divideva la zona riservata agli uomini da quella delle
donne.
Dato prontamente l’allarme, accorse per un
sopralluogo lo stesso presidente della sanità Monti, individuando in più
punti, ma soprattutto sulle panche,
macchie di materiale untuoso e sconosciuto.
Dopo questo caso clamoroso, si misero a verbale
molte denunce di cittadini, terrorizzati dalle continue unzioni che
nottetempo venivano compiute a danno di
portoni, maniglie e catenacci.
Lo storico Ripamonti riferisce due casi che riassumono bene il clima di sospetto che aleggiava in quei tempi.
Uno riguarda tre viaggiatori francesi, i quali
visitando la nostra città, giunti davanti allo splendido marmo del
Duomo, vi passarono le mani per saggiarne
la levigatura. Furono subito percossi da alcuni popolani, e poi
trascinati in carcere con l'accusa di essere untori.
L'altro, di un vecchio che prima di sedersi su di
una panca in S. Antonio, ebbe la malaugurata idea di spolverarla col
proprio mantello. I fedeli presenti lo
aggredirono a calci e pugni, abbandonandolo morto.
La situazione si era fatta a questo punto
ingestibile: il numero dei decessi aumentava ogni giorno di più, così
come le tracce di sostanze appiccicose,
rinvenute ormai dappertutto, nonostante il Monti avesse dato alle
stampe una grida “contro coloro che sono andato ungendo le porte,
catenacci, e muri di questa città”.
Di tutto ciò il Governatore dello Stato accusava
apertamente le potenze straniere nemiche della Spagna, colpevoli, a suo
dire, di aver prezzolato individui
senza scrupoli per diffondere la peste in tutta la città, col chiaro
intento di ridurre il ducato milanese in ginocchio.
Posizione del nuovo lazzaretto del Gentilino |
E mentre anche le cause civili erano ormai
sospese per precauzione, martedì 11 giugno, a mezzogiorno, si mosse la
grande processione col corpo di Carlo
Borromeo, voluta dal cardinale Federico, ultima speranza di un
evolversi positivo del contagio. La processione si snodò lungo le vie,
toccando tutte le porte della città, e di
volta in volta fermandosi ai piedi delle numerose croci stazionali
innalzate in occasione della pestilenza del 1576.
Purtroppo,
la grandissima affluenza di popolo portò, come prevedibile, ad un incremento della virulenza del male, che
nelle settimane
successive falciò inesorabilmente migliaia di persone, con una media
di centocinquanta morti al giorno, numero che toccò con l'estate i
duecento e più.
Ormai la situazione appariva drammatica: migliaia
di case chiuse o abbandonate ai saccheggi, infermi lasciati senza
conforto e senza alcun tipo di aiuto
medico, un macabro andirivieni, di notte e di giorno, di carri colmi
di cadaveri, fisici e protofisici incapaci di dare risposte se non
ricorrendo ai soliti salassi.
I nobili frattanto, davanti allo spettacolo di una città ridotta a bolgia di dannati, si erano dati precipitosamente
alla fuga, diretti nelle più sicure dimore di campagna, nonostante le
grida che proibissero di lasciare Milano, pena la confisca dei palazzi e
di tutti gli averi.
Gian Giacomo Mora: il capro espiatorio
L'unzione alla Vetra dei cittadini
Quando ormai le cifre ufficiali parlavano
apertamente di 14.000 decessi per peste dall’inizio dell’epidemia e la
città si presentava, come scriveva il
Monti, “miserabilissima”, i milanesi di Porta Ticinese e del Carrobbio
ebbero un terribile risveglio, la piovosa mattina di venerdì 21 giugno
1630.
Nella zona, infatti, tutti i muri, le porte, gli
angoli, e i catenacci delle case apparivano imbrattati con una sostanza
appiccicosa di colore giallo.
Nazario Castiglioni, sagrestano di S. Alessandro, è il primo ad
informare dell'accaduto il capitano di giustizia, Gianbattista Visconti,
che si recò immediatamente in Porta
Ticinese per far luce sull’accaduto.
Le informazioni che sono pervenute a noi, e che
ci permettono di ricostruire tutti i drammatici risvolti della vicenda,
sono contenute in alcune copie
(leggermente differenti tra loro) fatte del verbale originale degli
atti processuali, questo essendo da considerarsi perduto, nonostante le
pignole ricerche effettuate dallo
stesso Verri, prima, e dal Niccolini, poi.
Delle copie esistenti, una, a stampa (considerata
la più attendibile) fu pubblicata nel 1633 ed è conservata alla
Braidense (A.B. XIII.32), mentre
un'altra, manoscritta, sempre custodita alla Braidense (Manz. XII.
65-66), in due volumi, fu a fondo studiata dal Manzoni, del quale
riporta ancora le postille autografe.
L'arresto di Guglielmo Piazza
Da quanto si apprende dalle copie degli
interrogatori, il Capitano di giustizia, dopo aver ascoltato decine di
popolani, scovò finalmente una testimone ben
informata: Caterina Trocazzani, vedova di Alessandro Rosa. Questa
abitava in alcune stanzette le cui finestre s'affacciavano sulla Vetra
dei cittadini, una strada che si
immetteva sul corso di Porta Ticinese, sbucandovi quasi in faccia alle
colonne di S. Lorenzo.
La Trocazzani raccontò di aver visto, intorno
alle otto di quel venerdì mattina, un uomo alquanto sospetto, avvolto in
una mantella nera e con un grosso
cappello, il quale camminava in modo a suo dire sospetto, rasente ai
muri, e "che aveva una carta piegata al longo in mano, sopra la quale
metteva su le mani, che pareva che
scrivesse (…) che a luogo a luogo, tirava con le mani dietro al muro".
Un’altra donna del quartiere, Ottavia Persici,
moglie di Giovanni Bono, descrisse la stessa scena, e concordò sulle
fattezze e il comportamento
dell'individuo.
La Trocazzani poi, sempre affacciata al
davanzale, disse di aver visto l'uomo misterioso allontanarsi, non senza
aver prima salutato un passante, ch'ella,
per combinazione, conosceva. Da questo seppe dunque il nome del
presunto untore.
Fu così immediatamente tratto in carcere "un uomo
di statura grande, magro, con barba rossa assai longa, capelli castani
scuri, in camisa dal mezzo in
su, con calzoni di mezzalana mischia stracciati, calcette di stamo
nero, et ligazzi di cendal nero": il suo nome era Guglielmo Piazza, di
professione Commissario di sanità.
La sua abitazione in porta Ticinese, per l'esattezza nella parrocchia
di S. Pietro in Camminadella, fu perquisita, ma nonostante lo zelo non
si trovò alcunché di sospetto.
Il poveretto subì numerose sedute di tortura,
durante le quali ribadì sempre la medesima versione, e che cioè quella
mattina stava solo compiendo il suo
lavoro, percorrendo la zona della Vetra dei cittadini, delle colonne
di S. Lorenzo, di S. Michele alla chiusa e di S. Pietro in campo
lodigiano, per segnarsi sul foglio di
servizio le case rimaste abbandonate, e prendendo appunti sui decessi avvenuti nel quartiere.
Sul perché poi camminasse rasente ai muri, si
giustificò dicendo che voleva ripararsi dalla pioggia, cosa che se a noi
potrebbe apparire più che
verosimile, all’epoca fu ritenuta una menzogna bella e buona.
Tuttavia, non potendo resistere a lungo ai
tormenti cui veniva quotidianamente sottoposto, il 26 giugno confessò di
aver ricevuto del veleno da un barbiere
anche lui del Ticinese, di cui conosceva solo il nome di battesimo:
Giovanni Giacomo.
Il Piazza si era inventato dunque una storia
credibile, narrando che il barbiere lo aveva avvicinato qualche tempo
prima, offrendogli una buona ricompensa se
in cambio si fosse prestato ad ungere le case della zona con una
sostanza di tipo "giallo, duro, come l’oglio gelato nel tempo
dell’inverno", che lo stesso barbiere
fabbricava di nascosto nella sua bottega, e con la quale poi riempiva
certe ampolline di vetro.
Il notaio, che assisteva all'interrogatorio, mise
a verbale che il Piazza confessava di aver ricevuto la sostanza una
sola volta, e di averla utilizzata
nella zona circostante la Vetra dei cittadini, ma non oltre il ponte
dei Fabbri (attuale piazza Resistenza partigiana).
L'arresto di Gian Giacomo Mora
Forti
di quanto estorto con la tortura, il presidente della sanità, col
notaio ed una opportuna scorta, si presentarono nella bottega di
barbiere (ad
angolo tra la Vetra dei Cittadini e il corso di Porta Ticinese) di Gian Giacomo Mora, in quel momento in compagnia del figlio, Paolo Gerolamo, intento a sbrigare le proprie
faccende.
Per sua somma disgrazia, il Mora, che come tutti i
barbieri dell'epoca si occupava anche di bassa chirurgia, da quando era
scoppiata la peste arrotondava i
magri guadagni vendendo un prodotto da lui stesso inventato, un
rimedio contro il contagio, che era alquanto richiesto dal popolo,
privo, del resto, di altri e più efficaci
trovati scientifici.
Il barbiere pertanto, viste le guardie e
spaventato dal fatto che queste iniziavano una minuziosa perquisizione
della bottega, pensò di confessare la colpa
che, a suo ingenuo avviso, aveva spinto qualcuno a denunciarlo: ammise
così di aver più volte preparato un unguento senza averne
l'autorizzazione, ma di averlo fatto solo a fin
di bene, per amore del prossimo. Non poteva neppure immaginare, in
realtà, quale accusa terribile gli sarebbe stata mossa di lì a poco.
Durante la perquisizione della casa, fu
sequestrata una gran quantità di sostanze e pozioni, il cui elenco venne
steso dal notaio presente. La scoperta più
interessante la si fece però nel cortile interno del caseggiato, dove
in un angolo un poco nascosto si rinvenne un grosso pentolone
dimenticato al sole, dentro al quale marciva
“un aqua, in fondo alla quale vi è un’istessa materia viscosa e
bianca, e gialla”. Il tutto fu catalogato come “lisciva e cenere”, una
sostanza che, ricorda anche il
Manzoni, veniva comunemente adoperata, col nome popolare di "ranno" o
"smoglio" per fare il bucato.
Trascinato in carcere, alla domanda se conoscesse
il Piazza e se mai gli avesse consegnato un vasetto di vetro ricolmo di
un certo preparato, il Mora, sempre
all'oscuro del reato per il quale era stato messo agli arresti, ammise
di conoscerlo e di avergli venduto tal unguento salvavita, dato il
mestiere pericoloso che il Piazza
svolgeva, sempre a contatto con cadaveri e ammalati.
Quell'intruglio, secondo la sua confessione
riportata nel verbale dell’interrogatorio, era composta di “8 onze
d’oglio di oliva, 4 di aglio laurino, 4
d’oglio di sasso detto filosophorum, 4 di cera nova, 4 di rosmarino, 4
di ballette di ginepro, e 4 onze di polvere di salvia”. La pozione
andava sfregata sui polsi, e
conservava la salute da ogni contagio di peste.
Inutile dire che la sanità milanese volle vedere
in quella storia ben altri risvolti. In un processo indiziario e
inquisitorio, quello che appariva certo
era una sola cosa: il Mora produceva del veleno, tracce del quale
erano state rinvenute nella bottega, e ne aveva fornito il Piazza, col
fine criminoso di diffondere il contagio
a Milano.
Per eliminare ogni dubbio, il Senato milanese
convocò dei "periti" perché analizzassero la sostanza rinvenuta nel
pentolone abbandonato nel
cortile della bottega, al fine di accertare se fosse o meno il comune
smoglio da bucato.
Vennero così ascoltate due lavandaie
professioniste. La prima, Margherita Arpizanelli, disse che in effetti
trattavasi sì di smoglio, ma non puro, perché
a suo dire vi si potevano scorgere "delle furfanterie". La seconda,
Giacomina Andrioni, si disse sicura che lo smoglio contenesse "delle
alterazioni", e che
con quello si potessero fare "gran porcherie, e tosiche".
Per completare il giro dei periti, si mise a
verbale anche il responso di Archileo Carcano, fisico collegiato,
secondo il quale, addirittura, la sostanza
rinvenuta non era smoglio, anche se, poco professionalmente, tagliò
corto con un "ma io non ho osservato troppo bene".
Il Verri scrisse a proposito: ”In una bottega di
un barbiere dove si saranno lavati de’lini sporchi e dalle piaghe e da’
cerotti, qual cosa più
naturale che il trovarsi un sedimento viscido, grasso, giallo, dopo
varii giorni d’estate?”.
Ma di diversa opinione era il Senato, che tratte
le sue conclusioni, voleva solo ottenere le confessioni necessarie per
emettere la condanna.
Nel mese di luglio si ebbero numerosi arresti,
sulla base di testimonianze popolari o dietro confessioni estorte
torturando al limite della sopravvivenza il
Piazza e il Mora.
Tra gli altri, varcarono le soglie delle carceri
anche quattro ragazzi, con l'accusa di aver catturato lucertole per
conto del Mora, al prezzo di un soldo
l'una, e con le quali, secondo l'accusa del Senato, venivano preparati
gli unguenti pestiferi. Il barbiere, di contro, si giustificò dicendo
che le lucertole erano impiegate per
preparare un olio contro "le aperture", di cui soffriva un suo cliente
di nome Saracco.
Nelle calde giornate comprese tra il 27 e il 30
giugno si organizzò il confronto tra il Piazza e il Mora, ai quali si
concedettero infine sei giorni di
tempo per definire le loro difese, termine che comunque venne più
volte procrastinato, secondo le esigenze degli inquisitori.
Durante un interrogatorio segreto e pertanto non
trascritto in alcun verbale, il Piazza accusò quale untore il cavaliere
Giovanni de Padilla, figlio del
castellano di Milano. In considerazione del suo lignaggio, viene
chiesta l’autorizzazione all’arresto direttamente al Governatore
Spinola. Il Padilla, senza intervento di
ufficiali, fu condotto nel castello di Pomato per un primo
interrogatorio. Si susseguono rapidamente altri arresti e altre accuse,
tra le quali quelle rivolte ad alcuni banchieri
(Turconi, Sanguinetti) e ai loro impiegati, che secondo il teorema
accusatorio, avrebbero pagato, su commissione, gli untori.
La confessione del Mora
Stremato da più di un mese di torture, domenica
30 giugno il Mora iniziò a rendere piena confessione, sperando di porre
fine a quell'incubo e di avere
salva la vita.
Raccontò dunque di aver più volte preparato un
unguento pestifero, che ricavava utilizzando la "bava raccolta dai morti
di peste", materia che lo
stesso Piazza gli forniva, essendo per lavoro sempre a contatto coi
monatti e i carri stracolmi di appestati. La sostanza veniva poi fatta
bollire in quel pentolone rinvenuto in
cortile.
Successivamente, sottoposto ad altri tratti di
corda, il Mora aggiunse di aver organizzato il tutto dietro compenso
versatogli da un personaggio di spicco,
appunto Gaetano de Padilla, il cui nome evidentemente venne messo in
bocca al Mora dai giudici.
Con la confessione, il barbiere aveva in pratica firmato la sua condanna a morte.
La colonna infame
La sentenza del Senato milanese
In uno degli ultimi giorni di quel maledetto
luglio del 1630 (vi è incertezza sulla data), il Senato milanese emanò,
dopo quasi un mese e mezzo di
indagini, interrogatori, torture, arresti, la più terribile delle
condanne, a danno del Piazza e del Mora, che troveranno così la morte
pochi giorni dopo, il 1° agosto.
Come previsto dalla sentenza capitale, i due untori
rei confessi, legati schiena a
schiena, furono caricati su di un carro trainato da buoi, attorniato
da una folla inferocita. Il corteo partì dal palazzo del Capitano di
giustizia (attuale comando della
Vigilanza Urbana) e, passando prima accanto al Duomo e snodandosi poi
attraverso le varie tortuose contrade dei Mercanti d'oro, dei
Pennacchiari, della Lupa, della Palla, di S.
Giorgio al palazzo (che ora, rettificate, formano la via Torino),
raggiunse il Carrobbio.
Poi imboccò la strada di S. Bernardino alle
monache, dove i due vennero tormentati con tenaglie arroventate,
successivamente proseguì per S. Pietro in
camminadella, e, sostando davanti alla bottega del Mora, ai condannati
si amputò la mano destra.
Infine, il macabro corteo si arrestò nell'attuale piazza della Vetra, tristemente famoso prato ove era abitualmente allestito il patibolo.
Infine, il macabro corteo si arrestò nell'attuale piazza della Vetra, tristemente famoso prato ove era abitualmente allestito il patibolo.
Fatti scendere sullo sterrato gremito di
popolo, i condannati furono legati alla “ruota” (strumento molto in
voga all’epoca) e colpiti duramente con bastoni fino alla rottura di
tutte le ossa. Seppure in agonia, i
due poveretti rimasero per sei ore esposti alla pubblica vista,
affinché tutti potessero meditare sulla terribile sorte riservata agli
untori.
Al termine del rituale, si pose fine alle loro
sofferenze scannandoli, bruciandoli, e gettando le loro ceneri nella
Vetra che scorreva lì accanto.
Morti i due, si diede seguito alle disposizioni
della sentenza del Senato, demolendo dalle fondamenta la casa del
barbiere, e sullo slargo così creatosi si
innalzò una colonna di granito, con in cima una sfera di pietra, la
colonna infame, a perenne ricordo della malvagità degli artefici
dell'epidemia. Sul muro della casa di
fronte venne affissa una grossa lapide, la quale ricordasse quali
furono le colpe dei due criminali, quale la pena loro riservata, e il
monito affinché nessuno mai osasse
riedificare sui resti della bottega del barbiere Mora.
Riportiamo di seguito il testo latino della lapide, con la traduzione fatta dal Verri:
HIC.UBI.HAEC.AREA.PATENS.EST
SURGEBAT.OLIM.TONSTRINA JO.JACOBI.MORAE QUI.FACTA.CUM.GULIELMO.PLATEA PUB.SANIT.COMMISSARIO ET.CUM.ALIIS.CONJURATIONE DUM.PESTIS.ATROX.SAEVIRET LAETIFERIS.UNGUENTIS.HUC.ET.ILLUC.ASPERSIS PLURES.AD.DIRAM.MORTEM.COMPULIT HOS.IGITUR.AMBOS.HOSTES.PATRIAE.JUDICATOS EXCELSO.IN.PLAUSTRO CANDENTI.PRIUS.VELLIICATOS.FORCIPE ET.DEXTERA.MULCTATOS.MANU ROTA.INFRINGI ROTAQUE.INTEXTOS.POST.HORAS.SEX.JUGULARI COMBURI.DEINDE AC.NE.QUID.TAM.SCELESTORUM.HOMINUM RELIQUI.SIT PUBLICATIS.BONIS CINERES.IN.FLUMEN.PROJICI SENATUS.JUSSIT CUJUS.REI.MEMORIA.AETERNA.UT.SIT HANC.DOMUM.SCELERIS.OFFICINAM SOLO.AEQUARI AC.NUNQUAM.IMPOSTERUM.REFICI ET.ERIGI.COLUMNAM QUAE.VOCETUR.INFAMIS PROCUL.HINC.PROCUL.ERGO BONI.CIVES NE.VOS.INFELIX.INFAME.SOLUM COMACULET MDCXXX.KAL.AUGUSTI |
Qui dov'è questa piazza
sorgeva un tempo la barbieria di Gian Giacomo Mora il quale congiurato con Guglielmo Piazza pubblico commissario di sanità e con altri mentre la peste infieriva più atroce sparsi qua e là mortiferi unguenti molti trasse a crudele morte questi due adunque giudicati
nemici della patria
il senato comandò che sovra alto carro martoriati prima con rovente tanaglia e tronca la mano destra si frangessero colla ruota e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati poscia abbruciati e perché d'uomini così scellerati nulla resti confiscati gli averi si gettassero le ceneri nel fiume a memoria perpetua di tale reato questa casa officina del delitto il senato medesimo ordinò spianare e giammai rialzarsi in futuro ed erigere una colonna che si appelli infame lungi adunque lungi da qui buoni cittadini che voi l'infelice infame suolo non contamini 1° agosto 1630 |
Gli ultimi mesi dell'epidemia
La morte dei due innocenti non placò ovviamente
la furia del contagio, che in agosto, anche a causa della calura
opprimente, toccò il suo picco massimo. I
morti giornalieri, anche se le cifre tramandateci dagli storici sono
purtroppo sempre alquanto approssimative, ammontavano ormai a 600, e si
diceva che almeno 4.000 fossero i
cadaveri insepolti che giacevano lungo le vie o abbandonati nelle
case.
Continuarono anche gli arresti di untori, e
qualcuno iniziò ad ipotizzare che in città si aggirasse un vero esercito
straniero, col diabolico compito di
ungere tutta Milano.
Con settembre iniziarono a mancare i generi di
prima necessità e, quel che è peggio, iniziarono a scarseggiare i
monatti. Una grida del 22 luglio, del
resto, già aveva intimato di non "gettare, far gettare, lasciare o far
lasciare in strada dalle finestre alcun cadavere, se non nell'atto che i
monatti li ricevono".
Una missiva del 31 agosto 1630 testualmente dice
che "ormai a Milano è rimasta assai poca gente, e vi sono case
disabitate, e i morti, dall'inizio del
contagio, ammontano a settantaduemila".
Fortunatamente, a dicembre, grazie al freddo, il
contagio cominciò a perdere vigore, e a partire dai primi mesi del 1631
l'epidemia poteva dirsi in
ritirata.
Da un primo ed approssimativo conteggio Milano
risultava "ridotta però a cinquantamila abitanti solamente, mentre,
fattosi melio il conto,
centocinquantamila ne ha tolto la contagione di questo infelice anno,
mentre nelle ville, et per le terre del paese continuano a dimorare la
nobiltà tutta et molti altri, che a
tempo sono fuggiti dalla imminenza del pericolo" (Dispaccio 11
dicembre 1630).
Concludendo sui numeri dei morti causati dalla
peste, bisogna in ogni caso dire che fornire una cifra esatta risulta a
tutt'oggi assai difficile, anche perché
non sicuro è il numero degli abitanti prima dello scatenarsi del
contagio (gli storici dell'epoca Tadino e Ripamonti parlano,
rispettivamente, di 250.000 e 200.000 abitanti).
Per il numero dei morti, il Tadino lo calcola sui 165.000, mentre il
Ripamonti 140.000.
Accanto a questi calcoli coevi, riportiamo quelli
effettuati a metà ottocento da Francesco Cusani, che farebbero
ammontare a 150.000 gli abitanti di Milano
prima della peste, e a 86.000 i morti.
Vicende della colonna infame fino ai giorni nostri
La
colonna rimase
saldamente al suo posto anche quando venne livellata la Vetra dei
cittadini, per portarla alla stessa altezza del corso di Porta Ticinese
(metà del 1700). Ma le cose erano
destinate presto a mutare.
Come racconta il Bertarelli, nel 1770 il poeta
Balestrieri inviava a Vienna (sotto il cui giogo nel frattempo Milano
era passata), al barone di Sperges, la
traduzione milanese della Gerusalemme liberata, ove si faceva un
accenno alla colonna infame.
La lettera di ringraziamento dello Sperges, con
la quale si rammaricava della presenza in città di quel simbolo di
antichi errori giudiziari che disonorava
il Senato milanese, fu letta a casa del conte di Firmian, il quale si
ripromise di intervenire quanto prima. Tuttavia il Governo austriaco non
aveva fatto i conti col Senato,
contrario assai fermamente a qualsiasi possibilità di rimozione della
colonna, dato che ciò sarebbe finito con l'apparire un'accusa ad una
propria precedente sentenza, seppur
emessa in periodi storici ben differenti, quando la parola illuminismo
neppure esisteva.
Il braccio di ferro tra le due autorità, nel
quale si inserirono gli scritti del Verri e del Beccaria, si risolse rispolverando una vecchia legge cittadina, la
quale prevedeva, per i simboli e i monumenti d’infamia, il divieto di
restauro. Così fu sufficiente danneggiare un po’ il basamento della
colonna, per spingere l’Anziano
del quartiere a domandare il suo abbattimento per motivi di sicurezza.
Il Senato, strenuamente, si oppose alla
richiesta, ma il Governo, deciso a chiudere la questione, nella notte
tra il 24 e il 25 agosto 1778, bloccati i due
accessi alla via, mandò sul posto una squadra di muratori, che prima
dell’alba aveva già atterrato, demolito e sgomberato il terreno della
colonna infame, i cui avanzi furono
frettolosamente gettati nella cantina della demolita casa.
Il racconto di quella demolizione riparatrice di
errori passati fu steso dal farmacista Porati, residente di fronte allo
slargo, e pubblicato poi col titolo:
"L’abbattimento della colonna infame raccontato da un testimone
oculare".
La lapide fu invece rimossa nel 1803, ed è
visibile tuttora al Castello Sforzesco, dov’è esposta sotto il portico
del cortile della Rocchetta.
Proprio in quell'anno infatti venne edificata una nuova casa, che finì così per trovarsi proprio dove un tempo sorgeva l'antica bottega, sull'angolo tra il corso di Porta Ticinese e la Vetra dei cittadini, presto però ribattezzata, con decisione municipale del 17 dicembre 1868 "via Gian Giacomo Mora" (magra consolazione per il barbiere più sfortunato di Milano).
Proprio in quell'anno infatti venne edificata una nuova casa, che finì così per trovarsi proprio dove un tempo sorgeva l'antica bottega, sull'angolo tra il corso di Porta Ticinese e la Vetra dei cittadini, presto però ribattezzata, con decisione municipale del 17 dicembre 1868 "via Gian Giacomo Mora" (magra consolazione per il barbiere più sfortunato di Milano).
L’area è stata recentemente oggetto di riqualificazione edilizia, con costruzione di un nuovo palazzetto ad uso abitativo. Proprio all’angolo tra il corso e la via Mora il nuovo edificio si presenta con un piccolo portico angolare, sotto il quale è stata murata una scultura bronzea che rappresenta con un gioco di vuoti lo spazio che occupava la colonna. La relativa targa, posta di fronte alla scultura in una posizione poco visibile al passante frettoloso, racconta succintamente questa tragica storia milanese:
Scultura di Ruggero Menegon anno 2005
QUI SORGEVA UN TEMPO LA CASA DI GIANGIACOMO MORA
INGIUSTAMENTE TORTURATO E CONDANNATO A MORTE
COME UNTORE DURANTE LA PESTILENZA DEL 1630.
"... E' UN SOLLIEVO PENSARE CHE SE NON SEPPERO QUELLO CHE FACEVANO,
FU PER NON VOLERLO SAPERE, FU PER QUELL'IGNORANZA CHE L'UOMO
ASSUME E PERDE A SUO PIACERE, E NON E' UNA SCUSA MA UNA COLPA".
Alessandro Manzoni, Storia della Colonna infame
Bibliografia
Bertarelli, Tre secoli di storia milanese, 1929
Borromeo F., La peste di Milano, a c. di A. Torno, 1987
Brentari O., Le vie di Milano, 1900
Canosa R., La vita quotidiana a milano in età spagnola, 1996
Farinelli G., Paccagnini E., Processo agli untori, 1988
Formentini M., La dominazione spagnuola in lombardia, 1881
Gridario generale della gride, bandi, ordini, editti, provisioni, prematiche, decreti ed altro (…), 1688
I cinque libri degl'avvertimenti, ordini,
gride et editti, fatti et osservati in Milano ne' tempi sospettosi della
peste, ne gli anni MDLXXVI e LXXVII,
1579
Lampugnano A., La pestilenza seguita in Milano l'anno 1630, 1634
Manzoni A., Storia della colonna infame , 1840-42
Manzoni A., Storia della colonna infame , 1840-42
Pellegrino B., Porta ticinese, 1991
Porati A., L'abbattimento della colonna infame raccontata da un testimone oculare, 1892
Ripamonti J., De peste quae fuit anno MDCXXX libri quinque, 1641
Settala L., Preservatione della peste, 1630
Verri P., Osservazioni sulla tortura, 1777
Vianello C.A., Il Senato di Milano organo della dominazione straniera, 1935
gennaio 2005
ultimo aggiornamento: luglio 2014
ultimo aggiornamento: luglio 2014
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