Organi della
pubblica amministrazione in età spagnola
Premessa storica
Con la
morte di Francesco II Sforza, avvenuta nel 1535, Milano entrò a far parte del
vasto impero di Carlo V, ed anche se la città dovette attendere un decennio
perché le cose si ufficializzassero con il trattato di Crepy, di fatto
l’amministrazione pubblica cominciò ad essere riformata ad uso e consumo della
corona spagnola.
Vennero
pertanto creati nuovi organi (come il Governatore, il Gran Cancelliere, il
Magistrato ordinario e straordinario), mentre altri, già attivi durante il
periodo signorile e a volte addirittura comunale sopravvissero con gli
opportuni aggiustamenti (quali il Podestà, il Capitano di Giustizia, il
Tribunale di Provvisione).
L’amministrazione
della cosa pubblica fu pertanto ripartita tra un vasto numero di organi , con
non poche difficoltà in ordine ai loro poteri e alla suddivisione dei ruoli,
con soventi conflitti e dubbi di competenza. Il complesso degli organi che
analizzeremo era suddiviso tra Organi dello Stato e Organi comunali, questi
ultimi appartenenti alle singole realtà locali.
Nonostante
la sua complessità, secondo una stima attendibile, l‘intero apparato era
composto da un centinaio di persone. Ciò si spiega nei limiti assai ristretti
entro i quali si svolgeva l’azione amministrativa nei primi secoli dell’età
moderna. Del resto istruzione, salute, trasporti , assistenza (il welfare
state) non rientravano nell’orbita dei pubblici poteri.
Concludendo
questa breve introduzione, ricordiamo che la maggior parte delle cariche
pubbliche fu per legge riservata agli appartenenti alla nobiltà cittadina. Ad
esempio, durante la dominazione spagnola si ebbero 600 decurioni che si
avvicendarono nella carica. Questi appartenevano a 253 famiglie nobili, 23
delle quali diedero alla città cinque o più decurioni. In pratica, poche
famiglie tennero di fatto il potere nel corso degli anni (Archinto, Arcimboldi,
Arconti, Arese, Borromeo, Brivio, Castglione, Corio, Fagnani, Gallarati, Maggi,
Marliani, Pecchio, Posterla, Rainaldi, Schiaffinati, Taverna, Trivulzio,
Visconti).
Organi centrali
Governatore
1535-1706
Il Governatore di Milano era di nomina regia, e manteneva
la sua carica per tre anni, anche se nulla di preciso era stabilito in materia.
Egli era a capo di un vasto organismo chiamato Cancelleria Segreta, composta da
impiegati e funzionari, una sorta di piccola corte. Il governatore non era però
il rappresentante militare, spettando tale carica al Castellano. Tuttavia
moltissimi Governatori riuscirono a sommare i due incarichi.
Il governatore, appena entrato in carica, riceveva il
giuramento della città e dei feudatari, e la retribuzione annua era pari a
24.000 ducati. Nei momenti di sua assenza da Milano o in caso di interregno, i
poteri politici e amministrativi venivano affidati al Castellano, oppure al
Presidente del Senato. Solo in un secondo tempo si affidò l'interinato al
Consiglio Segreto.
I poteri del Governatore erano quelli tipici di un capo di
Stato, benché del suo operato egli dovesse rispondere al re di Spagna.
Suoi compiti erano quelli di natura diplomatica,
religiosa, monetaria e finanziaria. Presiedeva il Consiglio Generale dei 60
decurioni. Aveva potere di ordinanza, cioè potestà normativa, poteva accordare
la grazia e nominava direttamente le cariche biennali. Non del tutto chiariti
erano tuttavia i rapporti tra Governatore e Consiglio d'Italia.
Per l’elenco dei Governatori di Milano che si susseguirono
durante la dominazione spagnola, si veda l'articolo sui Governatori della Milano spagnola .
Gran cancelliere
1535 - 1753
Il Gran cancelliere era al
secondo posto, dopo il Governatore, nella gerarchia dell’amministrazione dello
Stato.
Uomo di fiducia di Madrid,
veniva scelto, a differenza del governatore, sia tra gli esponenti della
nobiltà spagnola sia tra quelli della nobiltà lombarda, e ricopriva l’incarico
a vita. La prestigiosa carica aveva in tutte le cerimonie pubbliche il
cosiddetto diritto di precedenza.
Tra i suoi compiti figurava
quello di controllore tutta la vita civile dello stato, e quindi occuparsi dei
problemi della giustizia, delle entrate, delle confische. Sua particolare cura
era assicurarsi che ogni magistratura o corpo amministrativo eseguisse i propri
compiti senza ostacolare le competenze degli
altri organi, eventualmente
dirimendone i conflitti di potere.
Era inoltre, di diritto,
presidente del Consiglio segreto, organo consultivo a cui era solito rivolgersi
il Governatore, e della Giunta interinale, che doveva reggere lo stato
nell’intervallo di tempo che intercorreva tra la partenza o morte del
Governatore e l’arrivo del successore.
L’autorità e le competenze
attribuite al Gran cancelliere rimasero pressoché invariate per tutto il
periodo della dominazione spagnola, mentre iniziarono a subire modifiche con
l’avvento della dominazione austriaca, che puntò a ridurne gli incarichi.
La figura comunque sopravvisse
di fatto fino al 1753 quando il conte Beltrami Cristiani, Gran cancelliere,
venne investito anche della carica di ministro plenipotenziario. Fu egli
l’ultimo a ricoprire tale prestigiosa carica, le cui funzioni furono
successivamente, in parte, assorbite appunto dal ministro plenipotenziario ed
in parte attribuite al neo costituito consultore di governo, una sorta di
consigliere ed assistente del ministro plenipotenziario incaricato soprattutto
di sopperire alle sue inesperienze in materia di legislazione locale.
Consiglio
segreto
sec. XVI - 1747
Il Consiglio segreto fu creato nell’età spagnola con la
principale finalità di assistere i Governatori, spesso in difficoltà perché
alle prese con ambienti a loro estranei ed ostili. Questo organo pluripersonale
si caratterizzava per la sua natura consultiva e si fregiava del potere di
giudice per gli appelli contro le sentenze di carattere fiscale emanate dai
Magistrati ordinario e straordinario, e di competenze in materie di politica e
di governo.
Nel corso del Seicento ottenne
più volte il governo dello stato nei casi in cui la carica di Governatore
risultò temporaneamente vacante.
La composizione mutò nei secoli:
mentre nel ‘500 era composto da persone scelte dal Governatore senza regola
fissa, col ‘600 si ebbero progressivi ampliamenti e mutamenti, con la
conseguenza che alla carica potevano accedere solo coloro i quali avessero
ricoperto alcune delle alte cariche dello stato oltre ad alcune personalità di
rilievo milanesi o spagnole.
Il Consiglio segreto mantenne le
proprie funzioni sino al momento delle grandi riforme teresiane di metà
Settecento, quando venne sostituito (1747) da due Giunte.
Senato
1499 – 1786
Il Senato fu uno dei più importanti organi dello Stato,
assommando a sé poteri d’interinazione e poteri giurisdizionali.
Per una disamina delle sue vaste prerogative e del suo
modus operandi, si veda lo scritto su Bartolomeo Arese e il Senato di Milano (leggi).
Castellano
sec. XVI - 1754
Il castellano era il responsabile della difesa del
castello e il comandante della guarnigione di volta in volta acquartierata, ed
essendo il massimo esponente militare del ducato, affiancava il Governatore
(che poteva eventualmente sostituire in caso di sua assenza) nelle
responsabilità e decisioni relative alle guerre. Era inoltre membro del
Consiglio segreto.
La sua nomina dipendeva dal
Sovrano, ed era scelto tra gli esponenti della nobiltà spagnola.
Magistrato ordinario
1541 - 1749
Il Magistrato ordinario, più
correttamente “Magistrato delle entrate ordinarie”, trovava le sue radici
nell’organizzazione amministrativa del periodo visconteo – sforzesco, basato
sulla bipartizione tra entrate ordinarie e straordinarie, bipartizione che la
dominazione spagnola decise di mantenere in vita (seppur dopo un tentativo di
accorpamento ad opera dal marchese di Vasto nel 1542 su ordine di Carlo V).
Secondo quanto stabilito e
ribadito dalle Nuove Costituzioni, il Magistrato delle entrate ordinarie si componeva di un presidente e di sei
questori: tre di toga, incaricati dell’esame delle questioni di carattere
giuridico, e tre di cappa e spada, ai quali erano invece attribuite funzioni di
ordinaria amministrazione e di vigilanza sull’applicazione ed esecuzione degli
ordini impartiti.
I membri del Magistrato
ordinario, quasi interamente patrizi milanesi, occupavano (nella gerarchia dei
poteri) una posizione immediatamente successiva a quella dei Senatori, e la carica di presidente di entrambe le magistrature
(ordinaria e straordinaria) garantiva la dignità necessaria per poter accedere
al Senato.
I membri del Magistrato
ordinario si adunavano tutte le mattine dei giorni non feriali, per circa tre
ore, durante le quali ascoltavano prima il relatore di turno, poi la relazione
dei maestri di cappa. Dopo una breve pausa, i questori tornavano a “sedere”, e
i notai ed i cancellieri alle loro dipendenze promulgavano le sentenze,
stipulavano atti di vendita e pagamento, preparavano le gride per la
pubblicazione degli incanti.
Il Magistrato ordinario era
competente in qualsiasi materia economica e finanziaria. Esso svolgeva una
parte preponderante nella preparazione dei progetti di legge che avessero
attinenza con le finanze: qualora il Governatore o il Consiglio supremo
avessero ritenuto opportuno avanzare la possibilità di emanare provvedimenti
finanziari al fine di far fronte alle necessità dell’erario, dovevano
preventivamente far pervenire la proposta al Magistrato ordinario per ottenere
ragguagli sul fondamento giuridico della ipotizzata manovra e sui probabili
effetti che ne sarebbero derivati.
Al Magistrato ordinario era
delegato anche il compito di vigilare sulla riscossione delle tasse di nuova e
vecchia istituzione tanto in Milano quanto nelle altre città dello stato, attraverso
l’ausilio di referendari da esso strettamente dipendenti.
Inoltre gli spettava (in
collaborazione col giudice delle monete) la vigilanza sulle monete circolanti,
al fine di evitare che entrassero nello stato danari falsi o di errato peso.
Aveva inoltre la delega per
l’organizzazione del servizio postale di stato (attraverso una fitta schiera di
personale alle sue dirette dipendenze, i mastri di posta, i quali avevano per
distintivo “la cornetta e la pelle di tasso in fronte” e i corrieri, che portavano
invece “sulla spalla l’arma di Sua Maestà”), il controllo sulla distribuzione
del tabacco, del pane di munizione, e la vigilanza sugli appalti di acquavite e
di acque rinfrescative.
Le Nuove Costituzione gli
riconoscevano un ruolo consultivo in merito a qualunque materia potesse
interessare la regia camera: ad esempio, i mercati, per l’apertura dei quali il
Magistrato ordinario doveva esporre il proprio parere sui memoriali che la
città inviava al Governatore che, a sua volta, trasmetteva al Magistrato; e
ancora al Magistrato era riconosciuto un ruolo consultivo in materia di prezzi.
Aveva poi la facoltà di
comunicare alla Corte le eventuali “incapacità” del bilancio a sostenere nuovi
pesi e, soprattutto, gli riconoscevano il diritto di porre “veto” ai Governatori
che richiedessero stanziamenti o pagamenti straordinari “in pregiudizio di
crediti già bilanciati”. Tuttavia, nel corso del Seicento, e ancor più nei
primi decenni del Settecento, durante il regno di Carlo VI, tale diritto di
veto venne di volta in volta annullato da ordini sovrani. Col tempo la pratica
di annullare con ordine regio il “diritto di veto” divenne infatti talmente
consuetudinaria che i medesimi Governatori si arrogarono la facoltà di
“ordinargli di dare corso a ciò che formava oggetto delle sue osservazioni, con
la dichiarazione di assumersene essi la responsabilità di fronte alla Corte”.
Data la vastità delle materie ad
esso attribuite e della sua giurisdizione, estesa a tutto il Milanese, il
Magistrato ordinario aveva alle proprie dipendenze una copiosa schiera di
funzionari, da esso direttamente nominati ed in ogni momento revocabili,
incaricati di esercitare le funzioni loro demandate dai questori competenti per
territorio e materia.
Nelle città capoluogo di
provincia il magistrato ordinario era infatti “rappresentato” dai referendari:
ad essi era affidato il compito di intervenire negli incanti; di avvertire il
magistrato circa tutte le gride pubblicate nelle città di loro giurisdizione.
Ai referendari era inoltre
riconosciuta una limitata competenza giurisdizionale tra il fisco e i privati e
contro i debitori degli appaltatori.
Il Magistrato aveva infine alle
proprie dipendenze la banca del notariato della camera, la banca del sale, la
banca delle imprese, la banca delle tasse, la banca del mensuale; i tesoriere
del tribunale; i ragionati della camera; l’ufficio delle munizioni e lavoreri
dello stato di Milano; i tesorieri generali.
Nel 1749 l’imperatrice Maria
Teresa unì il Magistrato ordinario e straordinario in un unico organismo: il
Magistrato camerale.
Magistrato straordinario
1541 – 1749
Per quanto riguarda l’origine
del “Magistrato delle entrate straordinarie”, si veda quanto detto per il
Magistrato ordinario.
Come stabilito dalle Nuove
Costituzioni, tra le sue attribuzioni rientrava la gestione della devoluzione e
vendita di feudi, regalie e titoli comitali (vendite frequentissime nel
Seicento per far fronte ai bisogni dell’erario pubblico), la gestione delle
eredità vacanti, delle concessioni fatte dal “principe” a titolo gratuito, dei
benefici di juspatronato, delle confische dei beni in seguito a delitti
perpetrati da qualunque suddito. A tal fine, il preposto all’amministrazione
della giustizia delle città, borghi o Terre in cui era stato commesso il
crimine doveva entro due giorni
recapitare la condanna al notaio dei malefici il quale, insieme al
notaio del referendario della città e del sindaco fiscale, in presenza del
console e di due “boni viri”, doveva descrivere dettagliatamente i beni
posseduti dal condannato; tali beni dopo essere stati valutati venivano
affidati alla custodia del console e degli anziani del luogo, fino alla
promulgazione delle “sentenze” da parte del Magistrato.
Inoltre, gli spettava
l’incombente della cura del giardino del castello di Milano ed i beni di
Villanova e la pulizia dei laghi e dei fiumi regali, il controllo sulle
esportazioni di generi di prima necessità, al fine di garantire allo stato un
abbondante approvvigionamento e di evitare un brusco rincaro dei prezzi; la
regolamentazione della coltivazione del riso, e della stipulazione dei
contratti di lavoro nelle risaie.
Anche il Magistrato delle
entrate straordinarie, come quello ordinario, si componeva di un presidente e
di sei questori, tre dottori e tre maestri di cappa corta a cui erano
attribuite le seguenti competenze: al primo dottore anziano competevano i
processi e le cause relative alle materie di feudi, devoluzioni, confische,
notificazioni dipendenti da confische o da condanne pecuniarie della città e
del ducato di Milano, oltre la gestione delle acque del naviglio della
Martesana, e dell’Adda fino alla Muzza.
Il secondo dottore si occupava
delle stesse materie per le città di Cremona, Pavia, Lodi e relativi contadi, e
della gestione delle acque di quei territori e del naviglio Grande di
Bereguardo.
Al terzo dottore competevano
infine le stesse materie del primo e del secondo ma per le città di
Alessandria, Vigevano, Tortona, Como e relativi contadi, oltre alla
notificazione di tutte le eredità vacanti nello stato milanese.
Ai tre maestri di cappa erano
invece delegate le seguenti competenze: il questore più anziano attendeva
all’evacuazione delle confische di tutto lo stato milanese; accomodava i libri
della Camera e sollecitava la riscossione dei frutti dei beni confiscati, patrimoniali
o devoluti, riferendo al
Tribunale tutte le scritture,
memoriali o altra documentazione relativa agli affari trattati; stimava e
collaudava i miglioramenti dei beni patrimoniali confiscati; provvedeva in
generale a tutti i miglioramenti apportati alle acque della Muzza.
Al secondo questore di cappa era
invece affidata la cura delle condanne pecuniarie; controllava che l’esecutore,
i referendari e gli altri commissari svolgessero con ogni cura la riscossione
delle condanne pecuniarie, riferiva sullo status patrimoniale dei condannati.
Al terzo questore di cappa era
affidata infine la cura delle biade, del naviglio della Martesana e della fossa
interna della città (la cosiddetta cerchia dei navigli).
I membri del Magistrato
straordinario si adunavano tutte le mattine dei giorni non feriali, per circa
tre ore, durante le quali ascoltavano prima il relatore di turno, poi la
relazione dei maestri di cappa. Dopo una breve pausa, i questori tornavano a
“sedere”, e i notai ed i cancellieri alle loro dipendenze promulgavano le
sentenze, stipulavano atti di vendita e pagamento, preparavano le gride per la
pubblicazione degli incanti.
Data la vastità delle materie ad
esso attribuite e della sua giurisdizione, estesa a tutto il Milanese, il
Magistrato ordinario aveva alle proprie dipendenze una copiosa schiera di
funzionari, da esso direttamente nominati ed in ogni momento revocabili,
incaricati di esercitare le funzioni loro demandate dai questori competenti per
territorio e materia.
Ad esso erano infatti subordinati
quattro capitanati, uno per il distretto del Seprio, uno per quello del
Lodigiano, uno per il lago di Como, ed uno per il Parpanese (territorio pavese
contiguo al Po), e quattro commissariati per la tratta delle biade con i
rispettivi contrascrittori in Pavia, Lodi, Como e Vigevano, i cui uffici
potevano essere alienati o affittati a persone private che, a loro volta,
potevano appaltarli al migliore offerente.
Ai capitanati ed ai
commissariati il Magistrato delegava prevalentemente il compito di impedire gli
“sfrosi”, soprattutto l’esportazione abusiva di biade.
Per quanto riguardava invece la
polizia delle acque, il Magistrato disponeva della collaborazione di speciali
commissari, detti comunemente campari, così distribuiti: sette sul naviglio
Grande, sette sul naviglio della Martesana, due sulla Mazza, uno sulla fossa
della città.
Il Magistrato aveva infine alle
proprie dipendenze un numero variabile di “capitani della darsena”, incaricati
di vigilare sopra i fiumi con competenza giudiziale nelle cause tra barcaioli e
pescatori, cause giudicate poi in grado di appello dal magistrato medesimo, e
da un numero variabile di notai, tenuti a registrare tutta la documentazione
prodotta dal magistrato.
Nel 1749 l’imperatrice Maria
Teresa unì il Magistrato ordinario e straordinario in un unico organismo: il
Magistrato camerale.
Collegio
fiscale
1541 – 1786
Il
Collegio fiscale, composto da tre avvocati e tre sindaci tassativamente
milanesi, doveva rappresentare presso il Senato e i due Magistrati (ordinario e
straordinario) le ragioni del “fisco”, al fine di ovviare, almeno in parte,
agli inconvenienti che si verificavano a causa dell’inesistente divisione tra
potere giudiziario, esecutivo, legislativo: il Senato, pur essendo un corpo
essenzialmente giudiziario era infatti investito anche di attribuzioni
politiche; i Magistrati, a loro volta, pur vedendosi affidate mansioni di
carattere esecutivo, svolgevano anche funzioni giudiziarie.
Il Collegio interveniva nelle
controversie relative a imposizione di nuovi carichi, di accensione di nuovi
debiti o di estinzione di antichi, o ancora quando si doveva procedere alla
compilazione di nuovi riparti delle imposte.
Mentre in origine il Collegio
fiscale interveniva alle sedute dei Magistrati e del Senato e prendeva decisioni
solo collegialmente, intorno alla fine del XVII secolo, e soprattutto durante
il regno di Carlo II, invalse la pratica secondo cui solo un sindaco ed un
avvocato fiscale, e sempre i medesimi, fossero incaricati di seguire tali
sedute al fine di conoscerne costantemente l’attività.
In ogni città capoluogo delle
province dello stato, il Collegio fiscale era “rappresentato” da due fiscali,
un avvocato (estraneo alla città di destinazione) ed un sindaco (anche del
luogo), ai quali era delegata la difesa degli interessi dell’erario.
La principale incombenza loro
attribuita consisteva tuttavia nel sorvegliare che i soggetti locali investiti
dell’amministrazione della giustizia giudicassero repentinamente e,
soprattutto, equamente le cause criminali, e che non mancassero di denunciare i
crimini e le “nefandezze” che si compivano nei territori sottoposti alla loro
giurisdizione.
Al Collegio fiscale era infatti
riconosciuta la facoltà di intervenire nelle cause penali al fine di far fronte
agli interessi materiali dell’erario pubblico, esigendo di volta in volta,
oltre alla punizione detentiva e corporale, la dazione di adeguate somme di
denaro o la confisca di tutti i beni.
L’attività del Collegio era
quindi, soprattutto nei momenti di grandi ristrettezze finanziarie, mirata a
ricavare le maggiori entrate possibili dai fatti criminosi: per i reati minori,
quali ad esempio i contrabbandi, il colpevole poteva scegliere tra l’esborso di
un certo numero di scudi d’oro e tre tratti di corda; i delitti gravi, quali ad
esempio l’omicidio, venivano invece non solo puniti con la morte, ma anche con
la confisca di tutti i beni del reo, colpendo quindi inevitabilmente anche la
famiglia del condannato.
Il collegio fu abolito dalle
riforme settecentesche, nel 1786.
Tesoreria generale
1541 - 1786
In linea con le più antiche
disposizioni visconteo-sforzesche, le Nuove Costituzioni del 1541 avevano
ribadito che i capitali provenienti dalle pubbliche entrate dovevano passare
alle casse della Tesoreria generale, incaricata del pagamento di tutte le spese
che le sarebbero state ordinate dai Magistrati delle entrate.
Così, l’attività della Tesoreria
si divideva in due settori totalmente distinti: uno incaricato appunto di
gestire le entrate e le spese di carattere civile, l’altro (denominato
Pagadoria o Cassa dell’esercito) incaricato della gestione delle spese
necessarie per i rifornimenti degli eserciti.
A capo della Tesoreria era posto
un questore del Magistrato ordinario, membro anche del Consiglio supremo, e
investito del diritto di voto sia presso il Magistrato sia presso il Consiglio.
Tuttavia questo ordinamento che
vedeva il Magistrato ordinario prevalere su quello straordinario, portò spesso
ad una situazione di conflittualità e sconfinamento nell’esercizio delle
proprie competenze.
La Tesoreria mutò col tempo i
suoi poteri, perdendoli o riacquistandoli a seconda della stagione politica e
della situazione economica del paese.
Infatti verso la metà del XVII
secolo la gestione finanziaria andò sempre più complicandosi e la funzione di
controllo della Tesoreria sempre più diminuendo. Il compenso sul fondo del
mensuale sborsato durante i conflitti per il mantenimento e l’alloggiamento
delle truppe, riconosciuto a tutte
le comunità dello stato
interessate si trascinò per anni al punto da rendere praticamente impossibile
sia la chiusura dei bilanci correnti sia la previsione di quelli futuri. Quando
poi a questo sistema della “compensazione” (cosiddetta “iqualanza”) si sostituì
quello del Rimplazzo, cioè l’appalto della manutenzione ed approvvigionamento
dell’esercito ad un’impresa privata, la Tesoreria generale perse ancor più la
sua importanza, venendole completamente sottratta la gestione dei fondi
militari, ad eccezione della quota di mensuale che la città di Milano era costretta
a pagare (alloggi militari).
Nel 1706, istituito il sistema
della Diaria, la Tesoreria ritornò parzialmente a coprire incarichi di primaria
importanza: la totalità dei capitali ricavati dall’esazione delle imposte
militari tornava ad essere gestito dall’ufficio Pagadoria - o Cassa
dell’esercito - il quale era tenuto a versare alla cassa della congregazione
del patrimonio l’importo di quanto speso per l’impresa del Rimplazzo.
Tuttavia nel 1716 l’ufficio
della Pagadoria venne definitivamente soppresso e sostituito da una cassa
completamente indipendente dalla Tesoreria generale, la Cassa imperiale di
guerra, presso la quale dovevano confluire tutti i proventi della Diaria e
delle tasse militari in genere, ad eccezione della quota di mensuale
corrisposta dalla città di Milano.
Per il mantenimento ed
approvvigionamento dell’esercito venne infine, nello stesso anno, istituito il
corpo del commissariato dell’esercito, il quale collaborava strettamente con la
cassa imperiale di guerra da cui riceveva i fondi necessari per far fronte alle
suddette incombenze.
Il settore ancora attivo della
Tesoreria generale incaricato della gestione delle entrate e spese di carattere
civile venne infine definitivamente travolto dall’ondata di riforme teresiane e
giuseppine.
Giudice delle monete
1541 – 1774
Il Giudice delle monete,
subordinato al Magistrato ordinario, aveva il compito di tutela la circolazione
di monete autentiche e del giusto peso (era prassi frequente infatti limare le
monete d’oro e d’argento).
Egli poteva a tal fine
promulgare gride, valide per tutto lo stato di Milano, in materia monetaria: il
Giudice mediante consulta doveva informare il Governatore circa la necessità di
emanare alcuni provvedimenti; e quest’ultimo “inherendo” alla consulta del
Magistrato ordinario emanava la grida ed investiva il Giudice delle monete del
potere esecutivo.
Dopo un lungo periodo in cui
chiunque poteva essere investito della carica di Giudice delle monete,
a partire dai primi decenni del
XVII secolo le autorità governative decisero che la carica fosse affidata a
persone competenti e soprattutto togate, vale a dire essere tassativamente
scelte tra i membri del collegio dei giurisperiti di Milano.
Elevato così di rango, si
stabilì che la carica avesse durata biennale e che al termine dell’incarico il
Giudice dovesse, come le altre magistrature, essere sindacato da un dottore
collegiato “separatamente e non con alcuni altri giudici”.
Poiché la natura stessa
dell’incarico costringeva il Giudice delle monete e i suoi funzionari ed effettuare
ispezioni e controlli presso le botteghe al fine di controllare che non
venissero utilizzate monete false o calanti, spesso si verificarono contro
questi pubblici ufficiali episodi di violenza e minacce.
Per porre rimedio a tale clima
di violenza innescato dalla categoria dei mercanti, le autorità centrali
autorizzarono i funzionari a muoversi armati per la città (e cioè dotati di
“giacca di maglia con maniche e armi di offesa e difesa”).
Essendo la sua competenza estesa
a tutto lo Stato, il Giudice (che operava concretamente solo nella città di
Milano) si avvaleva di luogoteneti per quanto riguardava i controlli nelle
altre città, borghi e terre dello stato. Purtroppo questi luogotenenti svolsero
sempre un pessimo lavoro (abusi, negligenze, incapacità), nonostante i
controlli in loco effettuati dai podestà territoriali.
Nel 1774 Maria Teresa ne dispose l’abolizione, lasciando la
funzione di vigilanza sulle monete al Supremo consiglio di economia e la
giurisdizione al giudice dei dazi in Milano e al regio podestà nelle altre
città.
Giudice dei dazi
1541 – 1786
Benchè
l’organo preposto alla gestione e cura dei dazi mercantili risalisse al XIII
secolo, andando in epoca signorile ad acquistare sempre più potere e competenze
specifiche, fu solo con le Nuove Costituzioni del 1541 che l’ufficio del Giudice dei dazi ottenne un forte potere e
compiutamente disciplinato. Il Giudice dei dazi dipendeva direttamente dal
Magistrato ordinario, ed era nominato dal Sovrano. Potevano accedere alla
carica solo coloro i quali avessero già ricoperto altre cariche di grande
rilievo.
La giurisdizione di questo
organo si estendeva a tutti i dazi dello Stato e a tutte le cause annesse,
connesse e dipendenti da quelli.
Pertanto i reggenti delle città,
i comandanti delle fortezze e gli ufficiali dell’esercito, se richiesti,
dovevano porsi al suo servizio e prestare aiuto per l’adempimento delle sue
mansioni. Qualsiasi soggetto statale incaricato di amministrare la giustizia
poteva trattenere presso i suoi uffici i contrabbandieri del dazio sulla
mercanzia, ma non poteva procedere senza aver preventivamente ricevuto
l’autorizzazione dal Giudice dei dazi; nessun giudice poteva ingerirsi nelle
cause daziarie o da esse dipendenti; spettava inoltre al Giudice dei dazi poter
procedere nelle cause criminali degli ufficiali del dazio della mercatura
secondo le disposizioni stabilite dalle Nuove Costituzioni e secondo gli ordini
intimati dal Governatore e dal Magistrato ordinario.
Assai diffusa era la pratica
secondo cui il titolare dell’ufficio di Giudice dei dazi ne fosse solo
“proprietario": l’esercizio effettivo della carica veniva dal medesimo
affittato ad altri.
Allo scadere dell’incarico, che
aveva durata biennale, il Giudice dei dazi veniva sindacato ed in seguito
all’esito della verifica del suo operato poteva ottenere di mantenere il
mandato sino al disbrigo totale degli affari più urgenti.
L’organizzazione dell’ufficio
rimase pressoché invariata sino al periodo delle grandi riforme settecentesche:
nel 1771 il Giudice dei dazi venne
direttamente sottoposto al senato camerale
che soprintendeva agli affari contenziosi dell’amministrazione
finanziaria.
Podestà
sec. XVI – 1786
Con l’avvento della dominazione
spagnola, accanto alle Magistrature (ordinaria e straordinaria) che rappresentavano
l’autorità centrale nei suoi aspetti politico-amministrativi e giudiziari,
continuarono a funzionare organi nati nel periodo comunale, anche se ridotti in
sottordine rispetto a quelle statali, ma pur sempre in possesso di grande
prestigio, sia per l’autorità esercitata in passato sia per le funzioni
pubbliche conservate, sia per gli illustri personaggi che si accinsero a
ricoprirle, sia ancora, per l’estesa area, non sempre chiaramente definibile,
su cui tali istituti esercitavano la loro giurisdizione.
Fu questo il caso del Podestà,
che sin dal tardo periodo comunale aveva esteso le sue competenze a tutto il
contado.
Alta carica ricoperta nel corso
dei secoli da esponenti delle più rappresentative famiglie nobili, prima
forestiere poi milanesi, il podestà era infatti magistrato civile di prima
istanza per Milano e per i borghi e Terre circostanti la città, compresi entro
lo spazio di 10 miglia; egli era inoltre giudice
penale per la sola città di
Milano e “cumulava” spesso la propria giurisdizione con quella del Capitano di
giustizia, dal quale si distingueva per avere l’esclusività della giurisdizione
civile e la “eccezionalità” di quella criminale. Anche il Podestà, come il
Capitano di giustizia, era di nomina regia, veniva quindi scelto dal Governatore,
e durava in carica un anno.
A lui erano inoltre subordinati
due vicari, il “giudice del gallo” e il “giudice del cavallo” (cosiddetti per
via dei simboli impressi sui loro seggi), ed una schiera di esecutori, tra cui
numerosi sbirri.
La carica di Podestà venne
soppressa nel 1786 in seguito all’onda riformatrice di Giuseppe II.
Capitano di giustizia
sec. XVI - sec. XVIII
Creato in epoca ducale, il
Capitano di giustizia, membro del Consiglio segreto e organo consultivo del
Governatore, conservò anche in epoca spagnola la primaria funzione di giudice
criminale e di tutore della sicurezza pubblica, soprattutto contro briganti e
banditi.
Le Nuove Costituzioni del 1541
ribadirono la giurisdizione sui crimini commessi nella città di Milano e nei
borghi e Terre compresi entro un raggio di 10 miglia, e gli riconoscevano inoltre l’autorità di
giudicare i reati avvenuti nei territori non compresi entro tale cerchia, per i
quali era prevista la pena capitale, la confisca dei beni, il mandato di
cattura, purché il suo intervento non fosse già stato preceduto da quello del
giudice criminale locale.
Inoltre, al Capitano spettavano
il rilascio di licenze per la vendita di vino al minuto, per lo sparo del
mortaretto, per l’organizzazione di spettacoli pubblici.
Infine, aveva la giurisdizione
in materia civile, ma solo in casi straordinari, spettando questa, in generale,
al Podestà. Tale “straordinarietà” avveniva per cause civili aventi come
soggetti tutti coloro i quali godessero del foro privilegiato: senatori,
questori dei due Magistrati, tesoriere, avvocati fiscali, dei loro segretari e
cancelliere, ed eccezionalmente di alcuni “enti” come i Gesuiti
di Brera.
Al Capitano, come giusdicente,
era subordinato un vicario, dottore in diritto civile e penale; come funzionario
di polizia, un luogotenente con tre bargelli, ciascuno dei quali doveva avere
alle proprie dipendenze almeno dodici sbirri.
Soppressa la carica dalle
riforme di Giuseppe II (1786), questa fu poi ripristinata (1791) da Leopoldo
II, e destinata a sopravvivere poi anche all’invasione francese.
Magistrato
di sanità
1534 – 1786
Istituito nel 1534 da Francesco II Sforza per vigilare
sulla salute dei cittadini, il Magistrato di sanità venne poi dettagliatamente
disciplinato dalle Nuove Costituzioni del 1541.
Composto
da un senatore-presidente, da quattro conservatori (due questori, due medici
collegiati), da un auditore giureconsulto e da un segretario (scelto tra i
segretari del Senato), tale organo aveva autorità su tutto lo Stato potendo
emanare ordini, infliggere multe, confiscare beni, condannare a pene corporali
chi trasgredisse gli ordini di sanità o chi attentasse alla salute pubblica.
Mentre
il presidente e i due questori venivano nominati dal Senato ed i due medici dal
Collegio dei medici, l’auditore, incaricato di indire i processi, veniva eletto
collegialmente dai membri dello stesso Magistrato di sanità. Il segretario
veniva infine scelto dal Magistrato tra i segretari al servizio del Senato.
Data la
natura e la vastità delle sue funzioni, numerosi erano i funzionari dislocati
sul territorio dello stato (nominati direttamente ma con approvazione del
Governatore): un commissario del registro dei morti, tre commissari urbani
addetti allo spurgo di latrine e cloache, un altro commissario destinato alla
pulizia delle strade, un chirurgo, un usciere, due appaltatori ed un custode
del Lazzaretto.
Ogni
città, borgo o Terra dello stato aveva inoltre speciali deputati incaricati di
fornire al Magistrato di sanità tutte le informazioni relative alle malattie
che ciclicamente colpivano uomini e animali. A tale scopo il Magistrato si
serviva di altri collaboratori ed aiutanti non funzionari: si trattava di
alcuni membri della comunità, eletti in ogni parrocchia col titolo di anziani -
nella sola città di Milano erano circa 80 - incaricati di notificare se
all’interno delle rispettive parrocchie vi fossero “soldati, vagabondi, persone
proibite”. Scopo dell’ufficio era infatti non solo debellare le pestilenze ma
prevenirle attraverso lo stretto controllo dei porti sui fiumi, affinché
nessuno potesse entrare clandestinamente nello stato, e l’applicazione di
particolari metodi precauzionali quali l’imposizione di multe e pene ai danni
di coloro che trasgredivano le norme sanitarie, l’isolamento dei borghi a rischio
con trincee e steccati; la stretta sorveglianza delle vettovaglie in entrata.
Tutti
gli ufficiali e i soggetti chiamati ad amministrare la giustizia (in
particolare il Capitano di giustizia) erano tenuti a prestare aiuto al
Magistrato soprattutto quando la salute pubblica era esposta a situazioni di
grave pericolo (ad esempio epidemie di peste). Inoltre il Magistrato di sanità
doveva visitare le abitazioni private per verificarne l’abitabilità;
controllare che le industrie da lui considerate nocive alla salute per le forti
esalazioni, segnalate in appositi elenchi (ad esempio l’industria del carbone,
della cera, del cioccolato, della cipria, dell’oro, dell’argento, del gesso,
delle pelli, le tintorie, le stamperie, le industrie di vernici) fossero confinate
fuori dai centri abitati.
Infine,
aveva il controllo delle bestie destinate al macello, dei registri dei morti,
dell’esercizio dell’arte medica, delle giostre e delle fiere, del
vagabondaggio.
Minato
nella sua autonomia dalle riforme settecentesche, fu abolito definitivamente
nel 1786.
Giunta dei cinque giudici delegati
1599 - sec. XVIII
Quando
Carlo V pubblicò il nuovo estimo per lo Stato di Milano (1543) al fine di
riformare completamente il sistema tributario, individuando nuove basi
imponibili, nacque una serie infinita di controversie per la ripartizione dei
carichi impositivi, soprattutto tra contadi e città.
Per
arginare almeno in parte questa valanga di ricorsi, il sovrano ordinò al
Governatore in carica, don Pedro de Padilla, di istituire una apposita Giunta
per risolvere le questioni sorte e definire alcune delle più importanti
questioni ancora rimaste insolute.
Nacque
così nel 1599 un organo di cinque giudici indipendenti: il gran cancelliere, il
presidente del Senato, due Senatori, scelti tra i più anziani e due questori,
uno scelto tra i funzionari alle dipendenze del Magistrato ordinario, l’altro
tra i questori subordinati al Magistrato straordinario (fu poi aggiunto un
supplente, scelto tra i questori del Magistrato ordinario).
La Giunta
si riuniva tre giorni alla settimana
(martedì, giovedì e sabato) presso la Cancelleria segreta per affrontare
e risolvere tutte le questioni sorte tra Contadi e le rispettive Città, e tra
le suddette parti e la Camera in materia di ripartizione fiscale, di
alloggiamenti militari e per dirimere le eventuali controversie già insorte e
che si sarebbero in futuro potute verificare in caso di abusi di potere da
parte dei commissari magistrali inviati nei Contadi per riscuotere le imposte.
La
risoluzione di queste liti assorbì per più di 150 anni l’attività della Giunta,
la quale non riuscì così a rivedere l’estimo cinquecentesco, il quale, con
tutti i suoi difetti ed imprecisioni, rimase in vigore fino a quando, sotto la
dominazione austriaca, venne istituita, per volontà dell’imperatore Carlo VI,
la Giunta Mirò.
Congregazione dello stato
1561 - 1786
Nel
1535, quando lo stato di Milano passò sotto il dominio di Carlo V,
l’ordinamento che inquadrava l’organizzazione della Lombardia era ancora quello
dello “stato cittadino”, fondato sulla netta distinzione tra città e contado e
soprattutto caratterizzato dal predominio dei cittadini, titolari di estesi
privilegi in materia giurisdizionale, tributaria ed economica, sui rurali.
Milano
godeva di una posizione del tutto particolare tra le città lombarde: nel
processo di formazione dello stato avvenuto attraverso la successiva
aggregazione delle altre città con i rispettivi contadi, durante la signoria
dei Visconti e degli Sforza, la città aveva mantenuto una posizione egemonica,
tenacemente difesa anche in seguito, che le aveva assicurato il ruolo di città
dominante.
La
supremazia delle città sulle campagne, ed ancor più la posizione preferenziale
di Milano nei confronti delle città periferiche e naturalmente del suo Contado,
si tradussero soprattutto in campo tributario, in una ripartizione degli oneri
che privilegiava la capitale dello stato ed i suoi ceti patrizi cittadini. In
questa prospettiva si spiega come e per quale motivo si facesse una distinzione
tra beni civili, cioè terre ed immobili posseduti da cittadini, e beni rurali
che, appartenendo agli abitanti dei contadi, venivano più pesantemente vessati
fiscalmente. L’irrazionalità di questo sistema fiscale che gravava
sproporzionatamente sui ceti meno abbienti furono avvertite in tutta la loro
gravità soprattutto quando lo stato cadde, nel 1535, sotto il dominio imperiale
e sotto le sempre più pressanti richieste fiscali.
Nel
1543 Carlo V ordinò al Governatore di Milano di compilare un nuovo estimo di tutto
lo stato, punto di partenza indispensabile per procedere ad una generale e
sistematica riforma del settore tributario. L’iniziativa del governo generò,
come è ovvio, inquietudini e preoccupazioni nei ceti fino ad allora
privilegiati e mise in allarme soprattutto le città, che vollero tutelare i
propri interessi sia di fronte al neo governo spagnolo sia di fronte a Milano.
Nello
stesso anno in cui fu ordinato il nuovo estimo, le città minori dello stato
nominarono alcuni rappresentanti incaricandoli di promuovere, nella capitale,
riunioni e di far valere le proprie ragioni in merito al riparto delle imposte:
fu il primo nucleo della Congregazione dello stato. Nata come reazione delle
città dello stato alla compilazione del nuovo estimo la Congregazione dello
stato fu inizialmente composta dai solo rappresentanti delle città lombarde:
gli oratori. Nessuna normativa guidò nei primi decenni di attività l’operato
degli oratori, eletti dagli organi consiliari delle singole città, residenti in
Milano, ed incaricati appunto di curare sia gli interessi di coloro che erano
chiamati a rappresentare sia gli eventuali interessi comuni a tutte le città
dello stato. Trascorsi alcuni decenni dalla nascita dell’organismo la città di
Milano preferì tuttavia farsi rappresentare non da oratori eletti dal Consiglio
dei sessanta decurioni bensì dal vicario di provvisione al quale fu
riconosciuta anche dagli altri membri la funzione di presidente, funzione che
mantenne sino al 1786 quando, in seguito all’azione riformatrice di Giuseppe
II, la congregazione dello stato venne soppressa.
Congregazione degli interessati milanesi
1549 - sec. XVIII
Poiché
il gettito fiscale esistente all’epoca in cui gli Spagnoli presero possesso del
Milanese si rivelò ben presto, causa le eccessive spese militari, insufficiente
ai fabbisogni dello Stato, le autorità ricorsero ai “soccorsi” in denaro
provenienti dalle altre parti dell’impero, ed alla creazione di un nuovo
tributo, propagandato inizialmente come temporaneo: il “mensuale”.
Per la
sua ripartizione le autorità imperiali si affidarono inizialmente al sistema
fiscale ducale, secondo cui ciascuna provincia doveva occuparsi della
ripartizione e riscossione della quota ad essa complessivamente attribuita.
All’interno di ogni provincia quindi le autorità provinciali stabilivano quanto
e come ogni singola Terra, borgo, città dovesse corrispondere secondo un
criterio fondato su una netta distinzione tra beni civili, cioè terre ed
immobili posseduti da cittadini, e beni rurali i quali, appartenendo agli
abitanti dei contadi, venivano più pesantemente vessati fiscalmente; criterio
che privilegiava le città sulle campagne e che ancor di più sottolineava la
posizione preferenziale di Milano nei confronti non solo del suo Contado ma
anche delle altre città dello stato.
Quando
però nel 1549 il governatore don Ferrante Gonzaga equiparò le pertiche civili a
quelle rurali, i milanesi possessori di beni nelle quattro principali città
dello stato, cioè Pavia, Cremona, Lodi, Novara, formarono un organo, chiamato
in seguito la “Congregazione degl’Interessati Milanesi”, che si sobbarcasse i
carichi di quella città e Provincia, nel cui territorio rispettivamente
possedevano beni i milanesi.
Furono
quindi eletti dieci “interessati milanesi”, quali membri rappresentanti della
Congregazione. Costituite poi le quote universali del censo, alla Congregazione
venne assegnata, quale sgravio delle dette quattro città, una particolare quota
di imposta, proporzionale al perticato che gli interessati possedevano in
ciascuna delle quattro province.
I dieci
interessati così eletti avevano ampi poteri relativi alle imposizioni, alle
spese, alla sistemazione degli estimi, alla correzioni di errori.
Le
imposte che la Congregazione era chiamata a riscuotere da coloro che rappresentava
comprendevano tre distinte voci: la diaria, le spese, i costi di alloggiamento
delle truppe.
Congregazione generale dei 65 Anziani.
1595 – 1758
Era l’assemblea più rappresentativa del Ducato poiché vi
concorrevano i 65 Anziani delle pievi che lo componevano.
Non esistendo atti istitutivi o riconoscimenti formali della
istituzione di questo organo, le prime notizie precise si possono trarre dal
decreto senatorio del 20 ottobre 1595, relativo alle modalità di nomina dei
membri: l’anziano di ogni pieve era scelto dai consoli e dai sindaci di tutte
le comunità che componevano la pieve, dopo aver consultato tutti i capi di
casa.
La scelta degli Anziani era ristretta entro la piccola
cerchia degli amministratori delle comunità maggiori, della nobiltà locale e
dei proprietari terrieri. Gli eletti erano per lo più individui esperti in
materia fiscale per aver appaltato gabelle, affittato dazi, controllato bilanci
locali; taluni possedevano una solida preparazione giuridica, essendo
procuratori di notai; la maggioranza era proprietaria di estesi fondi ed aveva
interessi diversi strettamente legati alla pieve di appartenenza.
Le occasioni in cui tale Congregazione venne convocata
furono poche: lo stesso decreto del Senato del 20 ottobre 1595, che la
riconobbe ufficialmente, restringeva il campo delle sue competenze invitando la
Congregazione generale a scegliere tra i suoi componenti 18 Anziani “delegati”
che la rappresentassero a pieni poteri in una Congregazione minore, detta
appunto “dei 18”. Tale decreto stabiliva poi che la conduzione degli affari del
Ducato fosse prerogativa dei Sindaci generali e della Congregazione dei 18,
delegata appunto a trattare “tutti li negozi in nome di tutte le Comunità della
Provincia": la Congregazione generale doveva quindi rinunciare a qualsiasi
intervento operativo e limitarsi ad eleggere i Sindaci ed i 18 Anziani, membri
della Congregazione minore. Tuttavia considerazioni di carattere economico
indussero i 65 rappresentanti delle pievi a rinunciare alla facoltà di eleggere
i 18, delegando tale prerogativa ai Sindaci (verbale 5 luglio 1599). L’elezione
dei Sindaci generali rimase dunque l’unico potere effettivo attribuito alla
Congregazione generale che venne definitivamente abolita con la riforma del 10
febbraio 1758.
Congregazione dei 18
1595 - 1758
Nata quale organo delegato della Congregazione dei 65
anziani, in modo da rendere più economico e veloce la loro convocazione (come
suggerito dal Sindaco Sormani), i 18 erano da quelli eletti, con il potere di
trattare tutti gli affari a nome di tutte le comunità del Ducato, così da
instaurare una maggior partecipazione degli Anziani alla conduzione degli
affari del Ducato. Due di loro dovevano, a turno, domiciliarsi a Milano, per
potersi relazionare continuamente coi Sindaci. Per regolamento senatoriale,
essi si riunivano una volta all’anno.
In epoca successiva, i 18 vennero eletti non più dai 65, ma
dai due Sindaci, svilendo così di fatto l’importanza di tali congregazioni
(anno 1599).
Alla carica di membro dei 18 non poteva essere eletto chi “
(si) trovi havere debiti verso il ducato, overo lite, o controversia con alcuna
Comunità d’esso per causa de carichi. Che la detta elettione facci di persone
delle più habili, sufficienti e prattiche in materia de carichi rurali e che
tengano la sua ordinaria habitatione e fameglia nelle Pievi e in quelle
sostengano carichi, né in modo alcuno vi si admettano Magnati o cittadini”.
Sindaci generali
1560 – 1758
Fin dalla loro istituzione, i due Sindaci generali si
rivelarono le figure di maggior rilievo nella vita del Ducato. Tale carica
mantenne sin dall’inizio carattere vitalizio, nonostante le reiterate proteste
delle città ed i tentativi degli stessi Anziani di renderla biennale.
Essi erano nominati dai 65 Anziani, inizialmente tra una
rosa di causidici estratti a sorte e poi votati a scrutinio segreto.
Successivamente (1623) il Governatore impose tra la rosa alcuni uomini vicini
alla Corona, in modo da influenzare le votazioni. In ogni caso il meccanismo si
rilevò sempre alquanto macchinoso e complicato.
I Sindaci generali ebbero dei poteri molti vasti, potendo in pratica trattare gli affari del
Ducato senza condizionamenti esterni.
Essendo necessariamente causidici (requisito obbligatorio
per chi volesse ricoprire la carica) e avendo quindi una forte preparazione in
materia legale, poterono sempre porsi agli occhi degli organi del potere
centrale e cittadino quali autorevoli interlocutori per la conoscenza della
situazione politico-economico-finanziaria dello stato. Potevano quindi cercare
di perorare la causa del Ducato, favoriti anche dall’incarico a vita che
permetteva loro di acquisire una profonda conoscenza delle situazioni, degli
uomini e delle problematiche.
Il fatto che i Sindaci avessero la facoltà di “far imposta,
torre a cambio, stabilire transazioni, alienazioni o altri contratti” dà la
misura della potenza da loro acquisita.
I Sindaci inoltre avevano il compito di custodire i
documenti e le scritture del Ducato (tali documenti erano archiviati presso
l’abitazione del Sindaco più anziano).
Quando, con la riforma del 1758, la Congregazione del Ducato
scomparve, alla provincia fu lasciata la rappresentanza dei due Sindaci, che
entrarono a far parte della nuova Congregazione del Patrimonio: tuttavia morti
i Sindaci eletti nel 1745 dall’ultima Congregazione generale di cui si hanno
notizie, non si procedette a nuove nomine.
Organi comunali
Consiglio generale dei 60 Decurioni (la
“cameretta”)
sec. XVI - 1796
Massimiliano
Sforza, costretto nel 1515 a chiedere un aiuto economico ai milanesi per far
fronte al pagamento delle truppe svizzere,
concesse alla città quale ricompensa (oltre alla proprietà del Naviglio
Grande e Martesana e altre acque pubbliche navigabili) il diritto di eleggere i membri del Tribunale
di provvisione, i giudici delle strade e delle vettovaglie con i rispettivi
notai, i sindaci, il tesoriere del comune e, in generale, tutti gli ufficiali
dipendenti, con un sistema a doppio turno. Tale sistema prevedeva che 150
deputati, scelti dall’intera cittadinanza, sarebbero stati incaricati di
eleggere i suddetti ufficiali.
Il duca
lasciò ai cittadini il compito di trovare il sistema più opportuno per
provvedere all’elezione dei “centocinquanta”, ma fu a Francesco I di Francia,
entrato a Milano l’anno successivo, che
i milanesi proposero quello che secondo loro era il meccanismo migliore: i vicini di ciascuna parrocchia avrebbero
dovuto nominare due deputati i quali avrebbero eletto quattro rappresentanti
per ognuna delle sei porte della città. Al Collegio di ventiquattro persone
così formato sarebbe spettata la nomina dei “centocinquanta”, in numero di
venticinque per porta.
Tuttavia
Francesco I pretese il requisito della nobiltà per l’accesso al Consiglio, e
stabilì che i “centocinquanta” avrebbero dovuto presentargli una terna di nomi
dalla quale egli avrebbe scelto il vicario ed una lista di trentasei candidati
tra i quali avrebbe designato i dodici di provvisione. I milanesi vedendo
notevolmente ridotte le concessioni loro precedentemente riconosciute da
Massimiliano Sforza chiesero a Francesco I che almeno fosse eliminata la
limitazione delle terne. Il re francese acconsentì, ed accettò in parte la
controproposta: concesse ai cittadini la libera designazione dei dodici di
provvisione ma mantenne la prescrizione della terna per quella del vicario.
Nel
1518 un decreto di Odetto di Foix ridusse il numero dei “centocinquanta” a
sessanta (10 per ciascuna porta), provvedendo a sceglierli personalmente tra i
nobili (e non tra i vari ceti della città).
Così
nel 1524 Francesco II Sforza elesse 60 nobili perché votassero per la nomina
del vicario e dei dodici di provvisione.
Col
passare degli anni si ebbero importanti modifiche circa la procedura di nomina.
Si arrivò a trasformare la carica in perpetua, con il diritto di
trasmissibilità da padre in figlio.
Con le
Novae Consitutiones (1571) il concetto
che i sessanta rappresentassero l’antico Consiglio dei novecento venne
giuridicamente recepito: nelle norme relative all’Officio di provvisione, i
Sessanta vennero infatti dalle Costituzioni definiti come i rappresentanti del
Consiglio generale: “Sexaginti viri, qui deni ex singulis Portis generale
Civitatis Consilium representant”.
Oltre
alla caratteristica di ereditarietà e perpetuità della carica, il governo
spagnolo nel corso del XVI secolo precisò i tre requisiti fondamentali per
l’accesso al decurionato: appartenere al patriziato milanese, non avere debiti
o cause pendenti con la città, avere un’età non inferiore ai 35 anni.
Nel
1652 una deliberazione, proposta dai tre Conservatori e votata dal Consiglio,
stabiliva che all’organo preposto al governo della città potessero essere
ammessi solo i nobili di nascita ed i cittadini originari la cui famiglia
risiedesse in Milano da almeno cento anni.
Oltre
al compito di nominare i membri di altri organi, il Consiglio era investito di
altre competenze,
che
spaziavano dalle questioni di ordinaria amministrazione a quelle di più vasta
importanza e di interesse generale. Decideva della concessione di terreni della
città ad enti religiosi e a privati a scopo “di ornato e di culto”, si occupava
della manutenzione di acque e canali, dell’ordine pubblico e del
vettovagliamento, costituiva commissioni decurionali incaricate di affrontare
questioni particolari, organizzava la rappresentanza della città nelle
celebrazioni solenni religiose e civili, si batteva per difendere gli interessi
locali presso la corte e nei rapporti con le maggiori autorità ecclesiastiche,
nominando e inviando ambasciatori.
E
ancora tra gli affari di maggiore rilievo che venivano sottoposti al Consiglio
vi erano innanzitutto quelli di natura finanziaria: il controllo dei bilanci
della città, la tipologia delle sovrimposte da adottare per rimediare al
costante deficit di bilancio, l’approvazione delle spese straordinarie e dei
conti del tesoriere della città, le eventuali alienazioni o obbligazioni di
fondi civici.
Il
Consiglio generale di Milano fu il solo organo amministrativo civico a non
essere abolito nel 1786: a differenza delle altre magistrature milanesi al
Consiglio non erano demandati compiti di natura esecutiva e dunque non venne
considerata una minaccia per il successo della riforma. Non fu tuttavia
risparmiato da Napoleone (decreto 19 maggio 1796).
Tribunale di provvisione
sec. XIII - 1786
Creato dall’arcivescovo
Ottone dopo la riconquista di Milano del 1277, allo scopo di unificare
l’organizzazione del Comune, il Tribunale (con sede in piazza dei
mercanti) contava dodici deputati,
nominati dal podestà, secondo quanto stabilito in una deliberazione del
Consiglio generale del 1279. Successivamente il Tribunale di provvisione venne
posto alle dipendenze del Signore che si vedeva quindi confermata la
possibilità di influenzare “legalmente ed ufficialmente” l’amministrazione
comunale.
Coi
Visconti, un decreto del 1364 regolamentò l’accesso alla magistratura e la
durata della carica: potevano essere ammessi solo uomini “buoni ed idonei”, i
quali sarebbero rimasti in carica non più di due mesi. Dal XV secolo assunse
importanza, tra i dodici, la figura di un Presidente, detto da lì in avanti
“Vicario di Provvisione”, il cui potere finì con il mettere in ombra sempre più
gli altri membri.
Dal
1515 il metodo elettivo dei Dodici di Provvisione e del Vicario passò
attraverso i 60 decurioni, come visto nella trattazione dedicata a tale organo.
Per
quanto riguarda la vastissima competenza del Tribunale di provvisione, che
estendeva peraltro la sua giurisdizione anche nel Contado milanese (pur
teoricamente autonomo dalla città da quando era stata istituita la Congragazione
del Ducato), aveva ampi poteri in fatto di ordine pubblico, vettovagliamento,
regolamentazione delle attività economiche, politica tributaria, assistenza
pubblica.
In
materia annonaria i provvedimenti del Tribunale si estendevano “alla legna da fuoco;
alle biade, farine, malossari dei grani, misuratori e conducenti; ai pani,
pristini, e molinari; alle carni e beccari; agli olii, grani, sevo, candele e
mele; a vettovaglie diverse, frutta e diverse provvisioni; al vino e uve; alle
misure per stadere; alla cera bianca e lavorata; alle pescagioni; al fieno e
alla paglia; ai corami e confettori; ai legnami da opera, chioderi, e carette
da condurre sabbia; alla legna da fuoco; alla calcina; al carbone e carbonina”.
Su tali materia il Tribunale aveva il controllo dei prezzi delle merci
praticate al pubblico nelle rivendite cittadine e del ducato, e chiunque poteva
denunciare un venditore disonesto.
Inoltre
si preoccupava di garantire che nei magazzini della città fosse mantenuta
costante “l’abbondanza” di grani, vettovaglie e mercanzie.
Con
l’applicazione delle pene pecuniarie
(multe) e delle pene corporali e afflittive (battiture, fustigazioni,
reclusioni, sospensioni di emolumenti, allontanamento dalle cariche) assicurava
la corretta osservanza della normativa disposta.
Il
Tribunale era giudice ordinario nelle cause civili mosse o da muovere contro il
comune di Milano e contro debitori, occupatori e detentori di beni e diritti
del comune; era giudice nelle cause in materia di edilizia, di giochi illeciti.
Il
Tribunale di provvisione aveva alle sue dipendenze numerosi ufficiali (con
poteri solo esecutivi):
- due procuratori, che duravano in carica 2
anni e svolgevano funzioni di supervisione e di controllo degli interessi
generali della comunità;
- un “cancelliere
delle gravezze straordinarie”, che era tenuto a registrare tutte le cause
trattate avanti il consiglio generale milanese,
nelle adunanze del Tribunale di provvisione, in quelle dei Conservatori
del patrimonio, ed infine anche nelle adunanze del banco di sant’Ambrogio;
- un
tesoriere della comunità, che teneva i libri di cassa ed il registro delle
imprese della città, secondo gli ordini stabiliti del Tribunale di provvisione
e dalla Congregazione del patrimonio;
- un “ragionatto generale della città” cui era
delegata la registrazione dei conti di ogni impresa, dei redditi e di tutte le
entrate ordinarie e straordinarie; ad un altro ragionatto era invece affidata
la compilazione dei ruoli di imposta;
- un
“notaro del criminale”, col compito di registrare tutti i processi che si
tenevano nell’interesse della comunità. Il suo officio era tassativamente
personale, non potendo essere per nessuna ragione sostituito o “subrogato” da
altri. Quale onorario il notaro riceveva di norma il terzo di quanto la
comunità incassava per i processi; in occasione poi di processi di “grande
somma”, il Tribunale poteva a propria discrezione disporre che gli venisse
elargita una gratifica in considerazione delle fatiche e dell’esito del
processo, la quale sarebbe andata ad accumularsi allo stipendio che
regolarmente gli veniva corrisposto dal tesoriere o che talvolta il notaro
stesso tratteneva all’atto del pagamento delle condanne;
- un
cappellano, che celebrava messa nella
sede della Provvisione, ogni giorno feriale, prima dell’apertura dei lavori;
- sei
usceri o portieri, detti “i bianchi e rossi” per il loro abito a quarti.
Durante le udienze pubbliche e private tenute dal Tribunale, dai sessanta
decurioni e dai conservatori del patrimonio almeno due dei sei uscieri erano
presenti nella sala della provvisione, mentre altri due assistevano il vicario
alternandosi ogni settimana secondo le sue disposizioni. I “bianchi e rossi” con i “trombetti”
intimavano inoltre le gride e radunavano gli abati dei paratici - cioè i capi
delle corporazioni di arti e mestieri - per notificare loro le disposizioni
stabilite dal vicario e dai dodici di provvisione. Ai sei uscieri era infine
affidato il compito di recapitare gli avvisi e le decisioni prese dal Tribunale
di provvisione ai membri del Consiglio generale ed a tutte le persone che, per
ragioni varie, si sarebbero dovute presentare presso gli offici di provvisione.
Le spese per il vitto e il “nolo della cavalcatura”, che gli uscieri dovevano
sostenere durante le trasferte per ragioni di ufficio erano a carico
dell’officio di provvisione;
- sei
“trombetti pubblici perpetui” ai quali era attribuita la funzione di pubblici
araldi, essendo essi tenuti a richiamare l’attenzione della popolazione sui
provvedimenti disposti dal Tribunale di provvisione e diffusi dai “bianche e
rossi”;
-
quattro “malossari dei grani”, che avevano l’officio nella “Camera” situata nel
Broletto Nuovo, detta “camera dei malossari dei grani”, e svolgevano la
funzione di pubblici mediatori nelle contrattazioni relative alla compravendita
del grano da parte della città;
- uno
“sfrancatore di corami” , dal Tribunale incaricato di marchiare con il bollo
cittadino tutte le pelli nuove prima di immetterle sul mercato per la vendita;
- alcuni “ufficiali delle cobbie”, svolgenti
funzioni ispettive in tutti i luoghi del ducato, per quanto riguardava la
materia annonaria;
- un
barigello detto “massarolo” deputato alle esecuzioni reali e personali che
dovevano essere eseguite entro tre giorni dalla definizione, in città, ed entro
sei giorni nel ducato. Di queste esecuzioni il barigello era tenuto a
presentare immediata relazione al tribunale di provvisione;
- gli assessori (due al bimestre, per un totale
di dodici all’anno), col compito di “giudici conciliatori”, essendo incaricati
di dirimere le controversie di piccolo conto che insorgevano tra la gente del
popolo. L’assessore “seniore” poteva assumere le funzioni di vicario qualora
questi fosse stato assente; nel caso in cui anche il seniore non fosse stato
disponibile, il Tribunale stabilì che le veci del vicario sarebbero state
espletate dall’assessore “juniore”.
Infine,
dal Tribunale di provvisione dipendevano anche il giudice delle strade, il
giudice delle vettovaglie e il giudice della legna i quali tuttavia, per l’importanza
dei settori loro attribuiti, non svolgevano solo funzioni esecutive bensì erano
chiamati a partecipare direttamente alle sedute con facoltà, per le materie di
loro competenza, di intervento e di voto.
Giudice delle strade
1541 - 1786
La
gestione pubblica delle strade acquistò un ruolo ben definito con la
promulgazione delle Novae Constitutiones del 1541, nelle quali venne regolato
il potere concesso al Giudice delle strade.
Egli,
nominato dal vicario e dai dodici di provvisione, ma vincolato all’approvazione e riconoscimento
del Governatore, entrava in carica solo dopo aver prestato giuramento nelle
mani di quest’ultimo.
L’ufficio
del giudice delle strade, organo pluripersonale, era composto da sei
gentiluomini, detti “probi viri” (tre dei quali dovevano essere dottori
auditori, uno notaio attuario, incaricato della compilazione degli atti
ufficiali, ed uno esattore), dai controllori delle strade ai quali era
attribuito il compito di ispezionare lo stato delle strade per poi farne
relazione al giudice, da tre ingegneri, da un capomastro per la parte tecnica,
e ancora da un cancelliere, un cassiere ed uno “scrittore” per l’espletamento
delle pratiche d’ufficio. A Milano ogni porta della città era inoltre
controllata da un commissario, un portiere ed un fante.
Uno dei
maggiori compiti delegati al giudice delle strade consisteva nella compilazione
del riparto delle “fatte” cioè delle tratte di strada la cui manutenzione
doveva essere assegnata alle Terre che componevano il Contado milanese. Secondo
quanto stabilito nelle Nuove Costituzioni le spese di manutenzione delle strade
che percorrevano la provincia del Ducato (17 nel corso del XIV secolo ridotte a
14 intorno alla fine del XVI) erano da imputarsi a carico delle sole Terre
rurali proporzionalmente al censo del sale loro ripartito: a ciascuna Terra era
quindi assegnata una tratta più o meno lunga di strada - denominata appunto
“fatta” - proporzionale all’entità della quota di sale ad essa attribuita.
Numerosi
furono, intorno alla fine del XVI secolo, i tentativi intrapresi dalle comunità
rurali al fine di obbligare anche le città a partecipare alla divisione degli
oneri stradali, pretendendo che le spese non fossero divise secondo il censo
del sale - di cui la città andava esente - bensì secondo il perticato. Tuttavia
il Senato sedò ogni pretesa ed ordinò al Giudice delle strade di formare un
nuovo riparto delle “fatte”, regolandole secondo il censo del sale, il quale
rimase pressoché inalterato sino al 1779, anno in cui il governo austriaco arrogò
a sé la manutenzione delle strade regie e provinciali.
Per
diritto municipale al Giudice delle strade ed ai sei gentiluomini era vietato
occuparsi di strade, vie, accessi del ducato di Milano che non fossero strada
maestra, come descritto nel libro che veniva consegnato al Giudice delle strade
nel momento in cui entrava in carica. Tuttavia spesso il Senato, con
particolari lettere, autorizzava il giudice ed i suoi collaboratori ad
occuparsi della manutenzione e del controllo di strade pubbliche non maestre:
poiché, secondo le disposizioni senatorie, era vietato occupare in qualsiasi
modo le vie pubbliche ed ostacolare il libero passaggio, il Giudice delle
strade poteva d’ufficio procedere contro i contravventori.
Tutti
gli ufficiali dipendenti erano inoltre autorizzati a curare la pulizia delle
strade cittadine e controllare che le vie, o in generale, qualsiasi spazio
pubblico non venisse occupato abusivamente. Al giudice delle strade era inoltre
demandato il compito di convocare i consoli o agenti dei comuni, luoghi, Terre,
borghi e cascine descritte nel libro delle strade prima di procedere alla
visita delle strade sottoposte alla loro giurisdizione.
Con gli
Austriaci, nel 1777 il sistema viario milanese venne riclassificato in strade
regie o provinciali, strade comunali e strade private, e le spese di
manutenzione delle provinciali, cioè tutte quelle strade che dalla città
portavano alla provincia del Ducato si stabilì fossero a carico della
provincia; quella delle comunali, cioè tutte quelle non comprese nelle
provinciali, venne posta a carico dei comuni; ed infine si stabilì che la sola
manutenzione delle strade private fosse a carico degli utenti. Il Giudice delle
strade mantenne tuttavia i suoi compiti di sorveglianza e manutenzione.
Giudice della legna
1547 - 1786
Il
Giudice della legna veniva scelto dal Tribunale di provvisione tra coloro che
fossero precedentemente stati nominati dodici di provvisione o avessero già
ricoperto la carica di Giudice delle strade o delle vettovaglie. La nomina
avveniva secondo un metodo di votazione a bussolotti tra una terna
precostituita di eleggibili.
Il
Giudice della legna (solo od accompagnato da “gentil’homini” nominati dal
Tribunale) si recava alle sostre dove era ammassata la legna, per accertarsi
che la città fosse sempre “ben fornita di legne, carboni e carbonine”, per
stabilirne il prezzo secondo la qualità e per riferire al Tribunale eventuali
anomalie affinché provvedesse con l’emanazione di appositi ordini.
La
legna necessaria per soddisfare le esigenze della città di Milano veniva
direttamente fornita dai proprietari dei boschi ubicati principalmente nei
territori del Contado milanese e della provincia Novarese i quali, nei mesi di
gennaio e febbraio, procedevano “al taglio” ed alla raccolta in “fascetti,
ceretti, fascine e camerette”. La legna così tagliata, dopo essere stata
notificata al giudice attraverso un “giuramento scritto” in cui i fornitori,
proprietari dei boschi, dichiaravano che la legna fornita corrispondeva
esattamente alla quantità richiesta dal giudice medesimo, doveva essere dai
barcaroli del Naviglio trasportata in città in tre tempi: le scadenze di
consegna erano fissate per i mesi di giugno, settembre e novembre, “in ragione
di un terzo per ogni mese di scadenza”. La dettagliata regolamentazione
stabilita dal Tribunale in materia di legna interessava anche i “numeratori”,
cioè gli addetti alla misurazione: nominati sempre dal Tribunale, solitamente
in numero di due, essi venivano dislocati ogni settimana in luoghi diversi, ed
invitati a misurare la “merce” in arrivo ad alta voce. Terminata questa
procedura, stabilito dal giudice della legna le modalità di vendita - a “peso”
o a “numero”, secondo la “qualità e bontà” - e verificato dagli ufficiali
dipendenti che ogni singolo venditore fosse in possesso della licenza di
vendita, rilasciata dal giudice medesimo, la “merce” poteva essere messa sul
mercato e venduta.
Eventuali
irregolarità segnalate dal giudice nella sua relazione al Tribunale di
provvisione venivano da quest’ultimo punite attraverso pene pecuniarie il cui
ammontare doveva essere versato al Tesoriere della comunità o al suo
coadiutore, “deputato alle invenzioni”. Al Giudice della legna era riconosciuto
il diritto di votare per la assoluzione o la condanna dell’imputato.
Giudice delle vettovaglie
1541 - 1786
Furono
le Novae Constitutiones del 1541 a stabilire con esattezza le attribuzioni del
Giudice delle vettovaglie, già funzionante in epoca signorile.
Nominato,
come il Giudice delle strade, dal vicario e dai dodici di provvisione, ma
vincolato all’approvazione e riconoscimento del Governatore, egli, esecutore
degli ordini del Tribunale di provvisione, entrava in carica solo dopo aver
prestato giuramento nelle mani del vicario e, al termine del suo mandato,
veniva sottoposto a sindacato da parte dei Sindaci della comunità.
Il
Giudice delle vettovaglie era membro della “Camera del Broletto”, convocata
ogni sabato e composta dal vicario di provvisione, quale presidente, e da
quattro “soggetti di spada dei più provetti e sperimentati”. Questa Cameretta, sentiti i prestinai ed i
venditori di farine e grani e le variazioni dei prezzi verificatesi nel corso
della settimana, stabiliva e faceva notificare “dal ragionatto della città
l’adequato dei prezzi in vista del quale conformemente si stabilivano le mete
del pane e farine di ciascuna specie”. La stessa procedura veniva seguita per
la preparazione del calmiere del prezzo del pane da seguirsi nelle località
forensi: la Cameretta, per conoscere esattamente la fluttuazione dei prezzi nel
Contado designava infatti “speciali persone alle quali ciascun prestinaro del
Ducato, era tenuto far capo per avere ogni settimana le mete regolate dagli
adequati dei prezzi”.
Al
Giudice delle vettovaglie era delegata la cura di tutti i forni e macelli di
Milano e di tutte le Terre e borghi del Ducato. Al giudice ed ai suoi due
officiali era delegata la facoltà di indire inchieste e condannare i
contravventori; le pene inflitte dovevano essere tassativamente notificate al
Tribunale. Il giudice ed i suoi officiali non potevano inoltre percepire alcuna
somma al di fuori del loro stipendio; qualora avessero, per qualsiasi motivo,
accettato compensi dalle parti in causa, essi sarebbero stati allontanati dalla
carica e costretti a pagare una multa pari a 50 scudi.
La
principale preoccupazione del Giudice delle vettovaglie e dei suoi
collaboratori era garantire alla città il regolare ed abbondante
approvvigionamento annonario della città ed il rispetto dei calmieri imposti.
Di qui ordini e gride destinate a favorire l’introduzione di viveri, e pene e
multe destinate invece a punire coloro i quali tentavano, a scopo di maggiori
guadagni, di “sfrosare”, cioè di contrabbandare le merci destinandole ad altri
paesi fuori dello stato o ad altre province dello stato medesimo. E proprio per
ovviare a questi inconvenienti il Giudice delle vettovaglie era tenuto, ogni
settimana, ad ispezionare tutti i negozi della città, per accertare che le
merci fossero abbondanti, di buona qualità e soprattutto che rispettassero le “mette”
stabilite in collaborazione con il vicario ed i dodici di provvisione nelle
riunioni settimanali che si tenevano nella Cameretta del Broletto. Ogni sabato,
ad esempio, il Giudice delle vettovaglie era tenuto ad ispezionare le
“beccarie” (le macellerie) per valutare la qualità delle bestie, a controllare
che i calmieri dei prezzi fossero ben visibili al pubblico, e che sui banconi
di vendita le carni soriane, cioè di bestia vecchia, fossero ben separate da
quelle di vitello o manzo: tali beccarie, solo dopo aver ottenuto “licenza”
erano autorizzate ad incominciare le vendite. E ancora ogni venerdì,
soprattutto nel “Tempo di Quaresima”, il giudice era tenuto ad ispezionare le
“banche” di pesce fresco.
Nel 1786 (con Giuseppe II) il
giudice conservò solo una mera funzione amministrativa.
Congregazione del patrimonio
1599 - 1758
La
Congregazione del patrimonio, costituita da otto membri, fu un organo
straordinario istituito dal Consiglio dei sessanta decurioni nel 1599, anno in
cui la città di Milano si trovò ad affrontare nuove e pressanti imposizioni
fiscali.
La
Congregazione rappresentava l’elemento necessario ad assicurare la continuità
nell’amministrazione della città, e doveva provvedere a tutti gli interessi e
affari del comune milanese che non riguardassero l’anno in corso, poiché di
questi si occupava già il Tribunale di provvisione: i conservatori del
patrimonio si occupavano infatti della riscossione dei crediti e del pagamento
dei debiti contratti dal comune negli anni precedenti, dei cambi e dei
prestiti, delle liti in cui la città di Milano era parte in causa e che si
protraevano da anni. La Congregazione affrontava inoltre tutti quei problemi la
cui soluzione poteva comportare esborsi per le casse del comune.
Alla
Congregazione venne in seguito affidata anche l’amministrazione delle finanze e
delle imposte, funzione gradatamente sottratta, per volontà del Consiglio
generale, al Tribunale di provvisione. Infatti nonostante le Nuove Costituzioni
attribuissero al Tribunale l’esame dei conti e la gestione delle spese del
comune, in realtà tali mansioni erano esercitate dal Consiglio dei sessanta
insieme alla Giunta urbana e alla Congregazione del patrimonio. Il controllo
del sistema tributario rappresentava il punto di maggiore forza politica ed
economica del decurionato: fondamentale per il Consiglio generale era quindi
sottrarre la gestione di tali materie all’ufficio di provvisione e pilotarlo
verso le commissioni decurionali, prima fra tutte quella del patrimonio, ad
esso strettamente legata. Alla Congregazione del patrimonio venne quindi
gradatamente affidata la compilazione dei bilanci della città, che dovevano
essere presentati al Consiglio generale, e la possibilità di suggerire
strategie di razionalizzazione delle spese e di aumento delle entrate
attraverso l’applicazione di nuove imposte straordinarie.
L’attività
svolta dalla Congregazione del patrimonio rimase tale sino al 1758.
Banco di sant’Ambrogio
1593 - 1786
Il
Banco di sant’Ambrogio era gestito da una congregazione omonima, composta da
dieci governatori, cioè dal vicario di provvisione, dal regio luogotenente, da
due membri del Tribunale di provvisione, due conservatori del patrimonio, due
decurioni, un dottore collegiato, che ricopriva la carica di pro-vicario, e da
un decurione esperto di contabilità. I governatori membri del Tribunale di
provvisione e della Congregazione del patrimonio venivano nominati dai
rispettivi “consessi” e restavano in carica per un periodo di tempo uguale a
quello previsto per l’ufficio al quale appartenevano. I due decurioni, il
giureconsulto e l’esperto di contabilità erano invece eletti dal Consiglio
generale, che li sceglieva tra una terna di nomi compilata dalla stessa
Congregazione del banco. La durata del loro incarico era di quattro anni, anche
se alla fine di ogni anno uno di essi decadeva e veniva sostituito secondo uno
schema ben preciso di avvicendamento: alla fine del primo anno decadeva il
dottore collegiato, alla fine del secondo uno dei due decurioni, alla fine del
terzo l’esperto contabile e alla fine del quarto l’altro decurione.
La
Congregazione del banco di sant’Ambrogio si occupava dell’amministrazione delle
rendite della città, quindi della vendita e dell’appalto delle imprese dei dazi
civili, oltre che della gestione dell’omonimo banco, di cui era organo
direttivo. I contratti di appalto venivano stipulati dalla congregazione su
delega del Consiglio generale, il quale poteva anche autorizzare deroghe alla
durata ordinaria dei contratti - pari a tre anni - oppure consentire l’unione
in un unico appalto di più imprese.
Nelle
situazioni di particolare gravità essa interveniva anticipando i capitali a
copertura finanziaria degli obblighi e degli oneri della città. I governatori
della Congregazione del banco dovevano riunirsi ogni sabato mattina, alla
presenza di un cancelliere incaricato di stendere i verbali delle riunioni.
Ogni governatore, a turno, doveva inoltre essere presente, per una settimana
consecutiva, per tutto l’orario di apertura del banco, al fine di seguirne da
vicino l’attività quotidiana, prendere conoscenza delle operazioni effettuate e
controllare la consistenza della cassa. Tra le attribuzioni dei governatori vi
era anche la nomina di tutti i dipendenti dell’istituto, i più importanti dei
quali erano il sindaco, incaricato di verificare la validità dei documenti
relativi alle operazioni effettuate, e il ragionatto generale. Il consiglio, in
particolari circostanze, poteva nominare gli “aggiunti” alla congregazione del
banco per coadiuvare gli altri membri. La dotazione del banco era
prevalentemente costituita da capitali depositati che non davano diritto; da
azioni dette “luoghi” i cui proprietari, detti luogatari, ricevevano dal banco
la metà degli utili ricavati; e ancora da azioni dette “molteplici” i cui
interessi non potevano essere riscossi prima di cinque anni. In questo modo il
comune milanese, ottenendo dal Banco capitali a basso interesse intendeva
risanare ed estinguere i debiti contratti nel corso dei secoli. Ciò nella
realtà non avvenne al punto che il comune, incapace di pagare anche solo gli
interessi spettanti al Banco, cominciò ad alienargli l’amministrazione di
regalie ed a rilasciargli il godimento dei redditi relativi, facendo quindi
sempre più gli interessi del Banco che in pochi decenni acquistò grande
floridezza economica.
Con le riforme del 1786 cessò di
esistere: secondo quanto disposto dalla nuova normativa il Banco venne
inglobato nel Monte di santa Teresa.
Congregazione militare
sec. XVII - 1758
La
Congregazione militare rappresentava una delle commissioni decurionali
permanenti, ed era composta dai membri della Congregazione del patrimonio, da
sei decurioni aggiunti, dal sovrintendente generale della milizia urbana, dai
sei maestri di campo, uno per ogni porta della città, e da quattro militari
esponenti del ceto patrizio milanese.
La
Congregazione era responsabile dell’organizzazione della Milizia urbana, creata
nella prima metà del Seicento. Il sovrintendente generale e i sei maestri di
campo, tutti patrizi esperti dell’arte militare, costituivano, insieme ad una
truppa di 6.000 uomini, la milizia urbana. Questi 6.000 militi, la cui età
variava tra i 18 e i 50 anni, erano divisi in sei reggimenti, comandati
ciascuno da un maestro di campo, coadiuvati da capitani, tenenti e sergenti. L’intero
corpo faceva capo al sovrintendente generale, che veniva nominato dal
governatore tra una terna di nomi preparata dal Consiglio generale. La nomina
degli altri comandanti della milizia spettava al Consiglio generale, anche se
doveva essere confermata dal Governatore.
La
milizia urbana era solitamente destinata alla custodia delle porte e dei
bastioni della città, durante le guerre o quando si temeva il pericolo di
contagio dalla peste.
Con le
riforme settecentesche perse il suo ruolo originario.
Conservatori
degli ordini
1621 - sec. XVIII
Poiché
nel 1621 era sorto in seno al Tribunale di provvisione un dissidio che opponeva
il vicario ai dodici di provvisione, circa la decisione del vicario di avocare
a sé la nomina di alcuni ufficiali del comune, il Consiglio generale affidò a
tre decurioni il compito di esaminare gli ordini della città per scoprire chi
avesse ragione (per la cronaca, ebbe ragione il Tribunale).
Nel
1641 il Consiglio nominò due nuovi decurioni per reintegrare la suddetta
delegazione, e rimase così stabilito che i conservatori degli ordini fossero
tre e che venissero nominati direttamente dal Consiglio tra i propri
componenti.
La
carica di conservatori divenne poi vitalizia e ai conservatori venne riservata
la lettura delle carte non firmate prevenute al Consiglio. La Congregazione,
col trascorrere degli anni, si occupò interamente dell’esame delle domande di
ammissione al patriziato e nello svolgere questo compito, divenne il difensore
degli interessi e delle prerogative del patriziato milanese.
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mauro colombo
luglio 2004
ultimo aggiornamento: aprile 2016
maurocolombomilano@virgilio.it