La storia di Milano, i suoi luoghi, i suoi personaggi. Un blog di Mauro Colombo

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martedì 17 giugno 2014

La Sala del Tiepolo in palazzo Clerici

 


La famiglia Clerici e la loro dimora

Palazzo Clerici sorge in quella parte più antica di Milano da dove partiva la strada per Como, nella via (oggi Clerici) che un tempo era detta “Contrada del prestino dei Bossi”, nella parrocchia di San Protaso ad Monachos (1).
I Clerici erano una famiglia di mercanti serici originari di Cavenago, in quel di Como. Si trasferirono a Milano quando, accumulate notevoli ricchezze anche con l’attività di prestito ad interessi, vollero dare maggior visibilità alla propria condizione economica e sociale. Il capostipite di una delle famiglie divenute nell’arco di un secolo tra le più potenti, ricche ed influenti dell’intero Ducato fu Giorgio I, che nell’ottica di investire i denari fino ad allora guadagnati con le proprie attività, iniziò ad acquistare terreni ed immobili in varie località comprese tra Milano e Como. Ancora oggi si possono ammirare imponenti ville e palazzi di campagna che testimoniano il potere raggiunto da tale famiglia: a Niguarda, a Tremezzo sul lago di Como, a Castelletto di Cuggiono. Quest’ultima, imponente e scenograficamente affacciata sul Naviglio Grande, era la più amata dalla famiglia, tanto da riuscire a farsi infeudare parte del territorio circostante con una offerta economica irrisoria che tuttavia l’Erario accettò senza batter ciglio (2), palesando così la spregiudicatezza e le interessate amicizie che la famiglia poteva vantare negli organi politici dell’epoca.
Il palazzo milanese, vero punto di partenza per dare lustro alla famiglia all’interno del Ducato, ebbe origine nel 1653, con l’acquisto di una non vasta ma prestigiosa “casa da nobile” messa in vendita dai Visconti di Somma. I successivi acquisti dei lotti adiacenti al primo nucleo permisero di ingrandire sempre più il palazzo, fino alla sua attuale estensione, raggiunta nel 1695, quando con l’annessione dell’ultimo caseggiato prospiciente la contrada (3) ebbero inizio i lavori di ammodernamento e configurazione unitaria (4). Nel frattempo, il figlio Pietro Antonio aveva acquistato il feudo di Cavenago, ottenendo contestualmente il titolo nobiliare, poi affiancato a quello di marchese.
Benchè entrati nella nobiltà cittadina da poco tempo (nobiltà familiare comunque rafforzata da opportuni matrimoni, che permisero di imparentarsi coi Pallavicino), Giorgio riuscì a diventare membro del Senato milanese, per poi ricoprire cariche anche nel Consiglio d’Italia (organo spagnolo preposto al controllo dei possedimenti nella Penisola).
Il palazzo raggiunse il culmine dello splendore con Antonio Giorgio  tra gli anni ’30 e ’60 del Settecento, quando ad abbellire la sfarzosa dimora vennero chiamati numerosi artisti. La struttura definitiva si sviluppò così attorno al cortile d’onore e al retrostante giardino rivolto verso la via Broletto. Altri ambienti aperti costituivano i cortili di servizio, il più interessante dei quali era senz’altro quello delle scuderie e dei depositi per le carrozze, vero vanto e status symbol da sfoggiare tra le vie cittadine, spesso tanto anguste da creare seri problemi di manovrabilità ad equipaggi da sei cavalli.
Per l’accesso al piano nobile venne progettata una sontuosa scalinata a tre rampe, caratterizzata dalla presenza di figure antropomorfe, molto simile come stile a quella della villa Clerici di Niguarda, attribuibile a Francesco Bolla. Dalla scala d’onore si accede al prestigioso salone da ballo, con balconate per i musicisti. Da questo salone, vero punto centrale delle serate mondane e dei ricevimenti che i Clerici organizzavano con frequenza, gli invitati passavano attraverso gallerie pensate per sfoggiare le ricchezze del casato, adorne com’erano di vere e proprie opere d’arte.

La galleria grande

L’apice della raffinatezza venne raggiunto nell’ambiente che Antonio Giorgio curò con maggiore attenzione e dispendio di denaro, quella che negli inventari settecenteschi era detta “galleria grande” o “degli intagli”. In questo spazio, affacciato sul cortile interno, si possono così ammirare tre diverse forme d’arte tutte sapientemente amalgamate: la pittura per il soffitto, l’ebanisteria per lo zoccolo ligneo, ed infine l’arte serica con gli arazzi delle pareti.




L’affresco al soffitto

Innanzitutto, nel 1740, Antonio Giorgio commissionò un vasto affresco per il soffitto a Giovanni Battista Tiepolo, ormai affermato pittore veneziano, che a Milano si era già fatto conoscere un decennio prima, affrescando cinque soffitti a palazzo Archinto di via Olmetto (5) e subito dopo decorando soffitti e pareti a palazzo Dugnani (6).
Per palazzo Clerici al Tiepolo venne affidato un compito impegnativo: affrescare un salone che si presentava alquanto allungato, tanto da essere chiamato appunto galleria. Tale spazio misura 22 metri per 5, uno squilibrio dimensionale che probabilmente il maestro veneziano non aveva ben compreso, se quello che oggi viene considerato il bozzetto preparatorio si sviluppa secondo uno spazio meno allungato. Probabilmente il Tiepolo dovette, una volta visionato personalmente il soffitto, rivedere il progetto per quanto riguarda gli spazi sfruttabili. Ne risultò in ogni caso un’opera eccezionale e di grande impatto, tanto che persino in epoca ormai neoclassica (quando il gusto barocco e rococò erano visti come il fumo negli occhi) l’affresco venne elogiato anche dal segretario di Brera, Carlo Bianconi, nella sua celebre guida (7).
Il vasto affresco rappresenta “La corsa del carro del Sole attraverso il libero cielo abitato dalle deità dell’olimpo e circondato dalle creature terrestri e dagli animali che stanno a simboleggiare i continenti”. Il roboante titolo lascia presagire la quantità di figure, di personaggi, di miti e di allegorie che il Tiepolo volle inserire nel suo capolavoro milanese.
Il centro dell’affresco è dominato dalla meravigliosa quadriga del Sole, preceduta dalla figura di Ermes che le apre la via del cielo.



Leggendo l’opera partendo dal lato lungo di sinistra, la prima scena che lo spettatore incontra entrando narra il mito di Proserpina: Demetra e la compagna Flora non s’avvedono che Proserpina viene rapita dal re dell’Ade Plutone. Conferma tale chiave di lettura la presenza del pipistrello, simbolo tipico delle rappresentazioni di Proserpina. Accanto a tali figure il Tiepolo dipinse il gruppo di Dioniso, abbandonato nel suo atteggiamento più consueto, tra la fine della baldoria e l’inizio della distensione. Gli fanno contorno uva e pampini, e tra le sue gambe un satirello fa apparire una damigiana di vino.
Ed ecco la prima delle allegorie dei continenti: qui abbiamo la rappresentazione dell’Asia, dominata dalla sagoma scura di una coppia di cammelli caricati con mercanzie orientali, quali stoffe e pennacchi. Schiarisce l’insieme il torso nudo del cammelliere, che col braccio indica un punto all’orizzonte, obiettivo del loro lungo viaggio.
Dopo l’Asia, ecco il secondo continente: l’America, rappresentata da due figure umane. Un pellerossa con arco e faretra, col tipico incarnito bruciato, e una fanciulla a lui contrapposta dalle gote candide come la neve, rappresentante quest’ultima dei primi colonizzatori inglesi delle nuove terre al di là dell’oceano.
L’ultima scena di questo lato lungo è l’allegoria del mare. Ecco dunque Teti, regina dell’oceano, e dietro di lei uno scherzoso zafiretto che in pugno stringe un rametto di corallo. Accanto a loro un delfino.
Il lato breve ad angolo con quest’ultima rappresentazione ospita l’allegoria delle arti, con un putto svolazzante che regge la tavolozza dei colori, e con un vecchio che regge una mandola (la pittura e la musica).
Accanto al putto si nota un volto, con le sembianza del Tiepolo: l’artista ha voluto inserire nell’affresco un autoritratto, cosa per lui non inusuale.


Il secondo lato lungo ospita subito la terza allegoria dei continenti, quella dell’Africa. Un’enorme proboscide e due lunghe zanne fanno presagire l’arrivo di un possente elefante, sul quale un soldato romano sembra voler guerreggiare con alcune figure di uomini dalla pelle scurissima e dai vestimenti variopinti. Un africano tiene un levriero al guinzaglio, bella contrapposizione di diversi cromatismi. Vi è anche una figura femminile, che qualcuno ha letto come la presenza di Cerere, dea delle messi e dell’abbondanza, ma la raffigurazione di un quadrante d’orologio tra le sue mani insinua tra gli studiosi più di una perplessità.
Ed ecco accanto l’allegoria dell’Europa. Nel gruppo di personaggi e animali spicca un guerriero con elmo e corazza luccicanti, forse Perseo, e sullo sfondo Posidone. Un amorino sostiene una civetta, simbolo di Minerva. Un destriero potrebbe essere Pegaso.
E dopo l’ultimo dei continenti, il Tiepolo volle rappresentare un mito molto conosciuto: il ratto di Venere. Quindi vediamo un carro guidato da Saturno, che rapisce Venere, la cui bellezza è a sua volta rapita dal Tempo, raffigurato con ali nere e falce.
L’ultima allegoria scelta dal maestro veneziano ha quali protagoniste le divinità fluviali. Vi sono molte incertezza circa l’attribuzione del significato di certe figure, ma a grandi linee possiamo vedere due corpi (uno è un vecchio, l’altro di spalle un essere umano dotato di corna) che si danno la schiena e che quindi non si vedono in volto: forse uno è l’Arno, mentre l’altro il Tevere. Due fiumi che nascono vicini ma che poi si allontanano l’uno dall’altro, fino a sfociare su spiagge lontane e diverse. Altri vecchi rappresentano ulteriori divinità fluviali (ma quali?). Accanto a loro vediamo Naiadi e pescatori.
L’affresco del Tiepolo divenne senza dubbio il fiore all’occhiello dell’intero palazzo, certamente l’opera più prestigiosa e spettacolare che gli ospiti di Antonio Giorgio potessero ammirare tra tutte le meraviglie che la nobile residenza conteneva per stupire e abbagliare. La galleria che ospitava tale magnificenza necessitava di essere abbellita anche in ogni suo altro particolare, al fine di rendere quell’ambiente il migliore in assoluto tra tutti quelli cosiddetti “di parata”.

Lo zoccolo ligneo

A tal fine Antonio Giorgio commissionò ad uno dei più conosciuti ed apprezzati ebanisti operanti a Milano la predisposizione di un alto zoccolo ligneo che cingesse tutta la sala; ottenne come risultato una boiserie giudicata oggi la testimonianza più spettacolare dello sfarzo e della raffinatezza artistica raggiunti nel XVIII secolo in Lombardia per quanto concerne l’arte dell’intaglio. Già il summenzionato Bianconi, nella sua Guida, non riuscì a nascondere l’entusiasmo per questa favolosa testimonianza della Milano barocca.
L’artista che realizzò tale capolavoro è da ricercarsi in Giuseppe Cavanna (8)  (come del resto scrisse lo stesso Bianconi), molto attivo a Milano presso importanti dimore nobiliari, che aveva già dato un’ottima prova della sua maestria in palazzo Perego, in via Borgonuovo, dimora purtroppo distrutta dai bombardamenti del 1943.
Il Cavanna lavorò in palazzo Clerici in una fase già matura ed avanzata della sua carriera, e sicuramente venne scelto grazie alle testimonianza lasciate del suo operare: non solo boiserie naturalmente, ma salottini, specchiere, interi arredi barocchetti che andavano ad impreziosire, come detto, le migliori residenza di Milano. La mano del Cavanna è tra l’altro riconoscibile in altri ambienti del palazzo, come ad esempio nella saletta del maresciallo: sue sicuramente le porte e le sovrapporte rivestite da rilievi dorati.
Nel salone del Tiepolo, Cavanna realizzò dunque, lungo tutto il perimetro, eccezion fatta per gli spazi in corrispondenza delle porte e delle portefinestre che danno sul cortile, una zoccolatura di circa ottanta centimetri di riquadri dipinti a monocromo, oro su bianco, con scene di vita militare. La visione dell’intera boiserie suggerisce lo svolgersi di una unica narrazione epica.
L’insieme rappresenta la Gerusalemme liberata, e si ispira al ciclo di raffigurazioni realizzate da Giovanni Battista Piazzetta che abbelliva l’edizione veneziane edita nel 1745 per i tipi di Giovanbattista Albrizzi, edizione peraltro finanziata in parte dallo stesso Antonio Giorgio Clerici.
Negli intagli si possono così riconoscere non solo le tavole anteposte ai venti canti del poema tassiano, ma anche le rispettive testate, i finalini e i finali. Tuttavia il Cavanna dovette creare ulteriori scene, dato che gli spazi a disposizione superavano le scene realizzate dal Piazzetta: in tali casi è difficile riscontrare una precisa ispirazione artistica.

Gli arazzi

Ad Antonio Giorgio ormai non restava, per completare sontuosamente la galleria, che trovare un adeguato rivestimento per le pareti, che idealmente unisse in un unico insieme di bellezza, la boiserie dello zoccolo al soffitto del Tiepolo. Decise così di coprire gli scialbi affreschi che fino ad allora avevano ornato le pareti con una serie di raffinati arazzi, gli stessi che ancora oggi, fortunatamente, possiamo ammirare.
Non sappiamo se questi vennero comperati appositamente oppure, più probabilmente, già si trovassero nel patrimonio familiare, esposti in altri ambienti o addirittura in altre dimore. Di certo sappiamo che vennero collocati utilizzando cornici recuperate altrove appositamente per tale scopo, anche se appunto in quanto recuperate chissà dove, hanno dimensioni diverse rispetto a quelle degli arazzi stessi, i quali vennero pertanto piegati quale più quale meno per poter essere ricompresi in tali riquadri lignei.
Antonio Giorgio scelse sei arazzi che avessero le giuste dimensioni per porter essere collocati nella galleria d’onore: ne prese quattro grandi rappresentati scene della vita di Mosè, e due più piccoli con scene guerresche di tutt’altro tema. Dei quattro arazzi del ciclo di Mosè possiamo a ragione ritenere che essi facessero parte di un ciclo ben più vasto, formato in totale da otto arazzi, e ciò si evince sia dalla lettura degli inventari di palazzo sia dal fatto che tale ciclo fosse stato prodotto in diverse serie per diverse committenze, e in tutti i casi (o quasi) era composto da otto pezzi. Quello di casa Clerici, per abbellire la galleria, venne così per sempre smembrato (9).
Gli arazzi del ciclo di Mosè sono databili intorno alla seconda metà del 1600, e vennero con buona probabilità realizzati a Bruxelles dalla mano di Jan II Leyniers (come si evince dalle firme poste sugli arazzi stessi: I.L. b.b.). Le firme riportano ad un arazziere di grande livello e fama, facente parte di una famiglia di importanti arazzieri e tintori, che ha consegnato alla storia parecchie opere di altissimo livello. I quattro incastonati alle pareti della sala del Tiepolo rappresentano Mosè al pozzo che disseta le greggi delle figlie di Etro (lo stesso arazzo riporta Moyses adaquat oves); Mosè davanti al faraone trasforma le verghe in serpenti (Moyses petit populi libertatum); Mosè passa il mar Rosso (Pharao cum suis submergitur); Battaglia contro gli Amaleciti (Moyses orante vincuntur Amalecitae).
I restanti due più piccoli arazzi che completavano le pareti della galleria non avevano nulla a che vedere con momenti della vita di Mosè, anche se riportavano la sovrascritta Moyses istoria. Appartenevano in realtà ad un ciclo di Clodoveo, come si è evinto dai cartoni preparatori oggi conservati in Francia. Oggi ne rimane solo uno, l’altro essendo stato rubato nel 1919 (10).

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Con la morte nel 1768 dell’artefice di cotanto splendore, il marchese Anton Giorgio, le ricchezze familiari si rivelarono inadeguate a mantenere i costi di una dimora tanto ricca e complessa quanto dispendiosa. L’erede Francesco mise in vendita l’immobile, ma visti i gusti ormai mutati in campo archittettonico (la nobiltà milanese faceva a gara nel trasformare le proprie dimore secondo i nuovi canoni del neoclassicismo), riuscì solo ad affittare il complesso alla Corte d’Austria, provvisoriamente rimasta senza sede adeguata in attesa dei lavori di restauro del palazzo reale affidati al Piermarini. Così, tra il 1771 e il 1778 palazzo Clerici ospitò balli di corte, feste, ricevimenti, importanti riunioni politiche e visite di capi di stato di tutta Europa.
Poi, il lento ma inesorabile declino: prima la divisione in molteplici appartamenti dati in affitto, poi finalmente l’acquisto nel 1817 da parte dello Stato, che tuttavia vi stabilì la sede del tribunale di terza istanza poi corte d’appello, con inevitabili e drammatici adeguamenti degli spazi interni dovuti alle nuove esigenze (11).
Nel 1940 trasferitasi finalmente la corte d’appello nella sua attuale sede, palazzo Clerici venne acquistato dall’ISPI, che iniziò dopo la guerra (i bombardamenti angloamericani ovviamente non risparmiarono l’immobile, ma grazie a precise disposizioni della Sovrintendenza non riuscirono a lesionare l’affresco del Tiepolo) a riportare lentamente e faticosamente gli ambienti al prestigio di un tempo, e che oggi si possono miracolosamente ancora ammirare.


Bibliografia

D’Ancona P., Tiepolo a Milano – Gli affreschi di palazzo Clerici, 1956;
AA.VV., Palazzo Clerici – La proiezione internazionale di Milano




 NOTE:
 1- Nel Seicento la zona di porta comasina era uno dei più popolosi sestieri di Milano, organizzato attorno alla strada che dal Cordusio, passando per il Broletto, si dirigeva verso la porta dalla quale si dipartiva la strada per Como. Nella zona abitavano moltissimi comaschi, lariani, brianzoli.
 2-Castelletto è oggi una frazione di Cuggiono, che all’epoca si divideva in Maggiore e Minore. La famiglia dei marchesi Piantanida aveva nel 1673 completato l’infeudazione di Cuggiono Minore, e l’anno successivo aveva rivolto la sua attenzione a Cuggiono Maggiore. Nel comune Maggiore esistevano tre partiti: uno era favorevole alla infeudazione da parte dei Piantanida, uno alla infeudazione da parte del marchese senatore Carlo Clerici, ed il terzo, capeggiato da un certo Taveggia, voleva mantenere “la libertà”, col mantenimento da parte del Regio Demanio.
Il Clerici, offrì allo Stato solo 4.474 lire per 202 fuochi, i Piantanida 15.336 per 213 fuochi. La Regia Camera dello Stato, dovendo scegliere fra le due offerte, optò per una asta; nel frattempo, la comunità dei membri di Cuggiono Maggiore aveva chiesto espressamente di essere infeudata al marchese Clerici.
I Piantanida offrirono allo Stato per l’infeudazione ben 20.956 lire, divenute poi 28.737 lire, a fronte di quella dei Clerici di sole 7.470 lire. A questo punto il Magistrato Straordinario decise che l’offerta dei Piantanida era più vantaggiosa ed una consulta fatta per l’occasione espresse parere favorevole a che Cuggiono Maggiore fosse infeudata ai Piantanida.
Improvvisamente il Magistrato Straordinario “cambiò idea” e decise di riaprire l’infeudazione del Comune, anche di quello Minore, già infeudato ai Piantanida dal 1673.
Alla fine vi fu evidentemente un accordo: ai Piantanida venne lasciato Cuggiono Minore e Cuggiono Maggiore fu infeudato ai Clerici.
 3-L’ultima particella fondiaria acquistata fu quella di proprietà dei fratelli Sangiuliano, liquidati con la ragguardevole somma di 22.000 lire imperiali. Precedentemente, erano state comperate le seguenti proprietà confinanti: Canobio, nel 1691, fratelli Visconti, 1692, Giulini già Terzaghi, 1693.
4-Non si conosce il nome dell’architetto che ha curato i lavori e la realizzazione della facciata del palazzo; ciò potrebbe dipendere anche dal fatto che non venne mai chiamato un architetto che curasse l’insieme dei lavori, probabilmente organizzati personalmente dai vari membri della famiglia. Di certo vennero chiamati numerosi artisti, ma solo per dar vita alle varie zone dell’edificio.
 5-Il marchese Antonio Giorgio era rimasto evidentemente impressionato dagli affreschi di palazzo Archinto, che ben conosceva: sua madre infatti era Maria Archinto, figlia del conte Carlo Archinto, che appunto aveva chiamato per primo il Tiepolo a Milano. Purtroppo di tali lavori non resta traccia, dopo le distruzioni della guerra.
 6-Il Tiepolo era successivamente tornato a Milano, ma questa volta per una committenza religiosa nella basilica di Sant’Ambrogio: nel 1737 lavorò nella cappella di San Vittore in Ciel d’Oro e nella attigua sagrestia delle Messe (si legga Serviliano Latuada, Descrizione di Milano, 1737, volume 4, pag. 302: “...mentre nell’anno 1737 fu ristorata tutta la Cappella, con aggiugnerle due laterai, rappresentanti l’uno il Martirio di San Vittore, e l’altro il Naufragio di San Satiro, fatti a tempra dal rinomato Tiepoli Dipintore Vineziano”).
 7-C. Bianconi, Nuova guida di Milano per gli amanti delle belle arti e delle sacre e profane antichità milanesi, edita nel 1787.
8-Giuseppe Cavanna nacque nel 1713 nella parrocchia di San Babila, e a lui deve essere attribuito il lavoro in palazzo Clerici, benché per anni molti studiosi attribuissero l’intaglio ad un esponente (Giacomo o Angelo) della famiglia Cavanna di Lodi, anche questa famosa per i propri lavori di ebanisteria.
9-Dei restanti arazzi del ciclo di Mosè che non trovarono posto nell’ambiente del primo piano, si persero le tracce allorquando il palazzo cominciò il suo lungo declino attraverso passaggi di mano non sempre all’altezza del fasto che aveva rappresentato. Di certo uscirono dai beni della famiglia Clerici nel 1818. Gli stessi tuttavia riapparvero ufficialmente in un atto di vendita del 1896, quando il monastero di San Maurizio maggiore (che ne era evidentemente in possesso da qualche decennio, e li esponeva durante particolari ricorrenze liturgiche) li vendette ad Alessandro Scaimi di Intra. Questi presto li cedette, e da allora passarono più volte di mano attraverso aste, fino ad arrivare, in forza di una donazione, alla loro attuale sede espositiva, presso il Virginia of Fine Arts di Richmond, dove proprio l’anno scorso sono stai sottoposti a importante lavoro di restauro. Questi quattro arazzi rappresentano Mosè salvato dalle acque, Mosè e il roveto ardente, Mosè fa scaturire l’acqua dalle rocce e Mosè spezza la tavole della legge.
10-Il furto avvenne mentre tutti gli arazzi si trovavano a Roma, dove erano stati trasportati, per ragioni di sicurezza, durante la prima guerra mondiale.
 11-Si pensi solamente al fatto che, a parte la galleria del Tiepolo salvaguardata in quanto usata come sala per adunanze plenarie, quasi ogni ambiente venne suddiviso in più piccole stanze, cosa che accadde anche alla sala da ballo riattata a biblioteca.


 Mauro  Colombo
 dicembre 2008
maurocolombomilano@virgilio.it