La storia di Milano, i suoi luoghi, i suoi personaggi. Un blog di Mauro Colombo

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lunedì 6 ottobre 2014

Antonio Boggia: il mostro della stretta Bagnera



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L'inizio dell'orrore: il caso Perrocchio


Il 26 febbraio 1860 Giovanni Maurier, abitante nel sobborgo facente parte della parrocchia di San Cristoforo al naviglio, di professione pittore decoratore presso la Richard ceramiche, si presentò negli uffici del Tribunale civile e criminale provinciale di Milano per denunciare la scomparsa della madre Ester Maria Perrocchio, vedova, ultrasettantenne, abitante al secondo piano di un caseggiato, totalmente di sua proprietà, sito in via Santa Marta al n. 10 (2824 della numerazione teresiana).
Inizia così ad emergere la terribile storia, costellata di agghiaccianti omicidi, di Antonio Boggia, che passerà alla storia come il mostro della via Bagnera.


La deposizione di un figlio disperato



Secondo la denuncia presentata, tutto ebbe inizio l'anno precedente, quando il Maurier, recatosi una mattina a far visita all’anziana madre, non l'aveva trovata, nonostante le ricerche, né in casa né nella vicina chiesa di San Giorgio al Palazzo, di cui era parrocchiana.
Dai custodi del caseggiato, i coniugi Trasselli, aveva finalmente appreso che la donna era partita qualche settimana prima, lasciando detto che si sarebbe recata sul lago di Como. Il Maurier dichiarò che non s'era all'epoca insospettito più di tanto, ben conoscendo infatti le stranezze della madre.
Tuttavia, poiché anche la seconda visita si era rivelata un ulteriore buco nell’acqua, il figlio della Perrocchio aveva iniziato a pressare con precise e insistenti domande i Trasselli. Questi, o non sapevano, o fingevano di non sapere, in ogni caso non lo avevano aiutato di certo a venire a capo della faccenda. Risultava solo che la donna era sparita da troppo tempo e senza lasciare traccia di sè.
Unico indizio, il suo nuovo uomo di fiducia, il capomastro Antonio Boggia, abitante in via Nerino, che a detta degli inquilini era da parecchio tempo in gran confidenza con la proprietaria. Lo aveva conosciuto, gli dissero, quando aveva cercato nella contrada un buon muratore per eseguire piccoli lavori di manutenzione al caseggiato, ed in breve tempo era diventato il suo amministratore.
Da quando poi la donna era partita, il Boggia si era messo a fare il bello e il cattivo tempo, aumentando gli affitti, eseguendo lavori nel palazzo, e facendo sparire i gatti che abitavano in cortile, pare l’unica vera consolazione dell’anziana signora.
Il Maurier, che sentendo questi racconti era rimasto sbalordito, raccontò in Tribunale di come avesse rintracciato l’uomo, dal quale, tuttavia, aveva genericamente appreso che la madre era in vacanza dalle parti di Como, e che lui amministrava il palazzo secondo le istruzioni che riceveva per lettera dalla donna stessa. A prova di ciò aveva mostrato, appunto, alcune missive, anche recentissime.
Rassegnatosi alle stranezze della madre, Giovanni Maurier aveva infine rinunciato ad ogni ulteriore indagine, in considerazione anche del fatto che una sua iniziale denuncia presso la Questura non aveva sortito alcun effetto, poiché il Boggia, convocato negli Uffici di San Gottardo, aveva spiegato di essere regolarmente munito di mandato con rappresentanza per gestire l’immobile, e che degli screzi tra madre e figlio non poteva essere al corrente.
Il racconto del Maurier si fece più interessante quando narrò il seguito, cioè del giorno in cui Antonio Boggia e un suo aiutante gli avevano fatto visita per sottoporgli un’interessante proposta: poiché la madre aveva deciso di affittare il palazzo per un lungo periodo di tempo ad un unico conduttore, avrebbe lasciato in comodato all’unico figlio l’appartamento del secondo piano, quello da lei abitato, visto che, per il futuro, avrebbe risieduto definitivamente sul lago di Como. Il Boggia lo aveva di conseguenza invitato a seguirlo presso il notaio rogante l’atto, sia per acconsentire al comodato, sia per ricevere il canone annuo d’affitto anticipato che il conduttore avrebbe versato.
Il Maurier ammise durante la deposizione che, per leggerezza e forse per cupidigia, da quel momento aveva smesso di sospettare del Boggia, felice del fatto che la madre si fosse finalmente rinsavita e che a suo modo, forse, avesse deciso di farsi perdonare.Tuttavia la contentezza del Maurier per quel colpo di fortuna insperato si era dissolta quando presso lo studio del notaio Cattaneo, dopo aver concluso l’atto, apprese che questi aveva in precedenza conosciuto la Perrocchio, esattamente il giorno in cui si era presentata col Boggia per rilasciargli la procura, e che il pubblico ufficiale insospettitosi della scarsa lucidità mentale della donna e fiutando una circonvenzione di incapace, si era rifiutato innanzitutto di rogare la procura, poi aveva cacciato il Boggia e aveva addirittura presentato richiesta alla pretura mandamentale perché si iniziasse un procedimento di interdizione. Purtroppo questo era stato prontamente archiviato, non appena si seppe che la interdicenda, come sostenuto dal suo amministratore, era ormai residente in Como, fuori della competenza quindi del tribunale milanese.
Questi i fatti narrati dal Maurier, fatti che al giudice Crivelli, cui venne affidata l'istruttoria, dovettero apparire molto gravi e circostanziati.

 

Il Boggia, timorato di Dio

In seguito alla denuncia del Maurier, venne formalmente aperto un fascicolo a carico di Antonio Boggia. Questi era nato il 23 dicembre 1799 a Urio, sul lago di Como, paese che aveva però definitivamente abbandonato nel 1818. Dopo un passato di piccolo imprenditore edile a Milano, aveva conosciuto il fallimento e si era per questo rifugiato in Piemonte. Anni dopo aveva fatto ritorno in città, dove aveva preso alloggio prima in via Montenapoleone, poi in via Nerino, e ivi abitava, vedovo e con dei figli.
Sbarcava il lunario facendo il muratore, o arrangiandosi con piccoli lavoretti di carpenteria. Aveva per un breve periodo prestato anche servizio a palazzo Cusani, sede del comando militare austriaco, come addetto all’accensione delle stufe e partecipava saltuariamente a vendite all’asta, dove godeva di una certa reputazione. Frequentava assiduamente la chiesa di San Giorgio al Palazzo, e i vicini lo giudicavano un bravo cristiano timorato di Dio, sempre pronto a darsi da fare per il prossimo.
A prima vista nulla di sospetto, insomma, ma in archivio venne trovata a suo carico una vecchia denuncia per tentato omicidio, a danno di un certo Comi, anziano contabile.
Dalla vecchia denuncia risultava che il 3 aprile 1851 il Boggia aveva invitato il pover’uomo, con la scusa di farsi controllare dei conti, presso un suo piccolo magazzino, sito nella stretta Bagnera (dal 1865 ribattezzata col termine di "via"). Mentre quello era chino sullo scrittoio, il Boggia gli aveva assestato un forte colpo di scure in testa, tramortendolo. L’uomo, riavutosi, aveva avuto la forza, benchè sanguinante, di scappare in strada, inseguito dal Boggia inferocito. Fortunatamente aveva incontrato nelle vicinanze un suo conoscente della guardia di finanza, che lo aveva soccorso e fatto arrestare il Boggia.
Questi all'epoca era stato giudicato in stato di follia, e quindi rinchiuso nel manicomio della Senavra, dove fu sottoposto a cure mediche e rilasciato dopo pochi anni.
Il Comi fu poi ascoltato durante il processo contro il Boggia, e la sua deposizione convinse tutti che quella volta, forse, la follia c'entrava poco.
 

Le indagini si fanno serrate…



Il Boggia, benché interrogato pressantemente e messo di fronte alle sue presunte responsabilità, si chiuse in un mutismo esasperante, trincerandosi dietro a tanti "non ricordo", "non so", "oh la mia povera testa". Ma ascoltando i portinai di Santa Marta, finalmente il giudice Crivelli cominciò a vederci un po' più chiaro. Il Trasselli ricordò di aver visto l’ultima volta la Perrocchio il giorno in cui il Boggia si era presentato di buon mattino per aggiustare il tetto dello stabile. Più tardi il capomastro gli aveva chiesto, per certi lavori, di portare al primo piano alcuni secchi d’acqua.
Una vicina ricordava l’accaduto, e disse di aver visto il giorno dopo il Boggia andarsene giù per le scale con una grossa gerla sulle spalle.
Fu subito disposta una perquisizione del caseggiato, per sostenere l’agghiacciante ipotesi: il Boggia avrebbe ucciso quella stessa mattina la Perrocchio, poi l’avrebbe seppellita nel palazzo (impossibile che si fosse aggirato per la città con un cadavere sulle spalle) e successivamente, con falsa procura, avrebbe amministrato il palazzo.
Le ricerche sul posto diedero i loro frutti: il corpo ormai decomposto della disgraziata, mutilato delle gambe e della testa, venne rinvenuto nascosto nel sottoscala, dove era stato abilmente murato. Il Boggia venne condotto sul luogo del ritrovamento, riconobbe la Perrocchio e ammise l'omicidio. Confessò che questo era avvenuto nell'appartamento della donna, utilizzando una scure, e il sangue era stato lavato grazie all'acqua fornita dal portinaio, all'oscuro di tutto.



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Il Boggia aveva poi frugato nell'appartamento, dove aveva trovato alcuni oggetti d'oro, rivenduti poco dopo ad un commerciante di preziosi. Nei giorni successivi all'efferato omicidio, calmatesi le acque, aveva diabolicamente organizzato la messinscena seguente. Si era impunemente recato con due amici da osteria in qualità di testimoni presso il notaio Cattaneo, in compagnia della madre di uno dei due, e presentandola come la signora Perrocchio, desiderosa di rilasciare al capomastro un mandato con rappresentanza per amministrare tutti i suoi averi.
Scacciati dal notaio che aveva però sentito puzza di imbroglio (essendosi quella donna tradita più volte davanti ad alcune domande del notaio) si erano presentati alcuni giorni dopo dal dottor Bolza, notaio in Como, questa volta in compagnia della cugina del Boggia, facendola passare (finalmente con successo) per la signora Perrocchio.
Per tenere poi in piedi la truffa, nei mesi seguenti il Boggia aveva fatto scrivere da uno dei due compari, impiegato calligrafo al tribunale, false lettere di ordini a firma della defunta, per tacitare i sospetti del figlio e degli inquilini.
Ma la storia era finita. O meglio, la storia della Perrocchio, perché il Boggia sulla coscienza aveva altri omicidi.
 

Gli altri crimini

Il giudice Crivelli, proseguendo nelle indagini, dispose un sopralluogo nel locale della stretta Bagnera, dove furono trovate le false lettere della Perrocchio e il mandato a rappresentarla.
Tra le carte custodite in uno scrittoio, saltarono fuori altri due mandati rilasciati al Boggia: il primo da un certo Serafino Ribbone, l'altro dal ferramenta Meazza. Inoltre, mettendo insieme vecchie denunce e tenendo in debito conto le dichiarazioni spontanee di alcuni testimoni, si appurò che un commerciante, scomparso ormai da qualche anno, negli ultimi giorni era stato visto confabulare col Boggia di certi affari. Quest'ultimo, naturalmente, negava tutto, lamentandosi delle ingiustizie che era costretto a subire, diceva, per vendetta del notaio Cattaneo, che gli serbava rancore dalla volta in cui si era rifiutato di predisporre la procura della Perrocchio.

La prima vittima

Dalla più datata procura ritrovata nel magazzino della Bagnera, gli inquirenti appresero innanzitutto che tale Angelo Serafino Ribbone, manovale, aveva incaricato, nel lontano 1848, il bravo Boggia, precedentemente suo datore di lavoro, di recarsi presso una sua parente sul lago di Como, per farsi restituire 1.400 svanziche che questi aveva lasciato in deposito.
In verità, ben due procure risultavano rilasciate dal Ribbone, dato che il primo mandato generale, rogato dal notaio Gaslini di Milano,  non era stato ritenuto valido, e la cugina del Ribbone si era inizialmente rifiutata di consegnare i soldi custoditi al Boggia. Solamente con un secondo mandato, questa volta speciale e rogato dal notaio Terzaghi di Lodi, la donna si convinse a consegnare il denaro  (ma dopo essersi informata e ottenuto il parere favorevole di un pretore circa la validità dell'atto stesso). Pare che il Boggia l'avesse poi rassicurata, raccontandole che quei denari occorrevano al Ribbone per sposarsi in quel di Lodi.
boggia serial killer bagnera milanoNaturalmente, mai il povero Serafino Ribbone aveva incaricato Antonio Boggia di effettuare tale prelievo. Probabilmente, e con un pizzico di ingenuità, egli lo aveva solo reso partecipe della piccola fortuna accumulata e depositata presso la cugina, dopodiché al resto ci pensò il Boggia: lo aveva ucciso attirandolo nel suo solito magazzino degli orrori con una scusa, si era procurato un amico disposto a spacciarsi per il Ribbone, due soliti compari falsi testimoni, e innanzi a ben due notai aveva ottenuto il mandato onde carpire i denari del poveretto.

La seconda vittima

Non aveva invece dovuto scomodare notai e testimoni per derubare la sua seconda vittima, il furbo Boggia. Gli era bastato frequentare le aste pubbliche, ed addocchiare un benestante mediatore di granaglie, tal Marchesotti.
Questi, avvicinato presumibilmente dal Boggia proprio durante una sessione d'asta, doveva essere stato attirato in trappola con una storiella di facili guadagni, per ottenere i quali era però necessario un capitale iniziale di 4.000 svanziche. Si deve credere che il Boggia fosse molto astuto e preparato, se poteva convincere della bontà di un affare un uomo esperto e navigato come il Marchesotti, che sulla piazza non era l’ultimo arrivato.
Unica certezza era che del mediatore si erano perse le tracce il 15 gennaio 1850, un sabato, quando di buon’ora era uscito di casa, dalle parti di San Marco, con in tasca i denari occorrenti ottenuti in prestito il giorno prima da un conoscente, per recarsi all'appuntamento d'affari. Testimoni lo videro quella mattina in un’osteria di Ponte Vetero, in compagnia del Boggia, poi entrambi si erano allontanati assieme.
Nei giorni seguenti erano state presentate due denunce: la prima dell'anziana madre, in pensiero per il figlio scomparso, e la seconda da tal Castiglioni, che aveva prestato i soldi al Marchesotti senza poi esserne tornato in possesso come pattuito.
All'epoca il tutto era stato presto archiviato, essendosi creduto che l’uomo fosse deliberatamente fuggito da Milano coi soldi.
 

La terza vittima

Nel 1851 il Boggia era entrato in contatto con il fabbro Pietro Meazza, proprietario di una bottega con alcuni dipendenti dalle parti del Carrobbio.
Poiché l'impresa navigava in brutte acque, il fabbro si era rivolto al Boggia, presentatogli da tal Binda, amico comune, come uomo serio ed onesto, capace di destreggiarsi negli affari come nessuno.
Legati al nome del Meazza risultavano un mandato rilasciato al Boggia affinchè questi amministrasse la bottega, un atto di vendita della bottega stessa al Binda firmata dal Boggia in qualità di rappresentante del Meazza, una denuncia di scomparsa del Meazza, e una denuncia per truffa presentata da un commerciante che aveva rilevato dal Binda l’attività, senza essere però stato adeguatamente pagato per della merce vendutagli.
Anche queste denunce erano cadute nel vuoto, visto che all’epoca rintracciare uno scomparso doveva essere, dati i mezzi tecnici, impresa alquanto disperata.
L’unica certezza era che il Boggia, per un certo periodo, aveva effettivamente amministrato l'impresa e pagato regolarmente i lavoranti. Poi aveva venduto tutto al Binda per una cifra inferiore al reale valore dell’attività. I pochi soldi, teoricamente, sarebbero andati al Meazza, ma era ormai chiaro, alla luce delle indagini, che il pover’uomo non aveva mai visto quel denaro, né più la luce del sole.
In questa faccenda, però, una cosa pareva autentica: la procura rilasciata dal Meazza. L’uomo aveva davvero incaricato Boggia di gestire il negozio, evidentemente lusingato dalle soluzioni prospettategli da quel mascalzone.
 

La terribile scoperta



Al giudice Crivelli dovette apparire abbastanza evidente che oltre alla Perrocchio il capomastro di via Nerino aveva fatto sparire almeno altre tre persone, e tutte per derubarle. Il problema era trovare le prove, vale a dire i cadaveri delle vittime.
Senza alcun valido elemento per orientare le ricerche dei corpi, le indagini caddero sulla stretta Bagnera, per almeno tre ragioni: innanzitutto perché il locale che il Boggia usava come magazzino e ufficio era da lui solo frequentato. Secondo, la via Bagnera era (ed è tutt’oggi) un budello a forma di L, ove era impossibile il passaggio di carri e carrozze, e dove anche i passanti erano scarsi. Terzo, il tentato omicidio del Comi si era consumato proprio in quello stanzone.

Servirono più sopralluoghi prima di accertare la verità, poiché l'edificio era stato ultimamente trasformato e riattato. In ogni caso, si appurò che all’epoca dei fatti il Boggia disponeva di una stanza mal ammobiliata, con annessa cantina, alla quale si accedeva con scala interna. La stanza era illuminata da una sola finestra, ma la cantina era totalmente isolata dalla curiosità dei pochi passanti.


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Il Boggia, che ricordiamo si trovava agli arresti per l’omicidio della Perrocchio, portato sul luogo si rifiutò di collaborare, benchè messo alle strette davanti al ritrovamento di alcuni effetti personali del Meazza, tra i quali un cinto per l’ernia.

Vennero iniziati allora degli scavi nella cantina, che portarono, un po’ alla volta, al ritrovamento di tre scheletri: quello del Ribbone, quello del Marchesotti, e quello del Meazza. Dell’ultimo non si ebbero dubbi, essendo il cranio privo dei denti incisivi, caratteristica questa del povero fabbro.



Il processo 

Il capomastro divenne per tutta la città "il mostro della via Bagnera" o "della via Nerino", tanto da diventare il protagonista di raccontini popolari e di macabre rappresentazioni teatrali scritte per il popolino.
Durante tutto il periodo della detenzione che precedette il processo, il Boggia si dichiarò un povero malato, che faceva quello che la testa gli ordinava, testa che sempre gli doleva, tanto da non permettergli neppure di dormire.
In effetti, anche i suoi compagni di cella testimoniarono le stranezze notturne del detenuto, solito camminare nella stanza che divideva con loro completamente nudo, e sempre pronto a lamentarsi per i dolori lancinanti al capo. Forse il Boggia, che già era stato precedentemente giudicato pazzo, puntava ad un verdetto simile, sperando forse di tornare alla Senavra.
A pochi tuttavia i suoi delitti apparivano in sintonia con la mente di un folle, che uccideva colto da raptus, come l’accusato sosteneva ("ero preso come da un raptus"). Innanzitutto perché gli omicidi erano sempre legati a guadagni consistenti e illeciti, poi perché i piani che ogni volta il Boggia aveva architettato erano degni di un professionista della truffa e del crimine.
Al termine dell'istruttoria, al  Boggia vennero contestati i seguenti capi di imputazione:
- omicidio a scopo di rapina di A. S. Ribbone, avvenuto nell'aprile 1849;
- omicidio a scopo di rapina di G. Marchesotti, avvenuto il 15 gennaio 1850;
- omicidio a scopo di rapina di P. Meazza, avvenuto nell'aprile del 1850;
- tentato omicidio di G. Comi, avvenuto il 2 aprile 1851;
- omicidio a scopo di rapina di E. M. Perrocchio, avvenuto l'11 maggio 1859.
A questi reati si aggiunsero le tentate truffe e le sostituzioni di persone in atti pubblici.
 

La sentenza di morte

Il processo si aprì il 18 novembre del 1861, e durò cinque giorni. La difesa aveva giocato tutto sull'infermità di mente, basandosi anche sulla prima assoluzione avvenuta all'epoca dei fatti relativi al Comi. Al termine tuttavia venne emessa prevedibile sentenza di condanna a morte.
Il successivo ricorso in Appello fu respinto, e verdetto negativo diede anche il tribunale di terza istanza. Neppure il re volle concedere la grazia.
boggia serial killer bagnera milanoIl Boggia apprese in carcere, il 6 aprile 1862 che nulla più poteva aspettarsi se non la pena capitale.
Poiché a Milano non vi era all'epoca un boia, ne vennero fatti venire due, da Torino e da Parma. Le numerose candidature spontanee presentate da cittadini in vena di giustizia sommaria furono ovviamente scartate.
Il giorno dell'esecuzione, Antonio Boggia fu fatto salire su di un carro coperto da un'intelaiatura di stoffa nera assieme ai boia, e fu portato, tra ali di folla curiosa e feroce, fuori città. Il mesto corteo, composto anche dalle carrozze degli alti funzionari del Tribunale e dei rappresentanti della commissione carceraria, si fermò all'altezza dei Bastioni, in uno slargo tra porta Vigentina e porta Ludovica. Qui, davanti ad una marea di uomini, donne e, come poi deplorato dalla stampa, ragazzini, Antonio Boggia fu impiccato.
Salì sulla forca, silenzioso e rassegnato. Il boia gli coprì il capo con il cappuccio di tela.
Alla fine delle preghiere, il prete fece cenno al carnefice di compiere la sua opera.
Il suo corpo trovò sepoltura nel cimitero del Gentilino, fuori Porta Ludovica (vedi scheda sul cimitero qui ), eccezion fatta per la testa che, spiccata dal tronco, venne data in custodia al gabinetto anatomico dell'Ospedale Maggiore, come da esplicita richiesta  (vedi la lettera del 4 aprile 1862 - ASMI), affinchè, debitamente "trattata", potesse essere da tutti visionata e soprattutto studiata da illustri medici e scienziati, tra i quali il Lombroso, che ne giudicò la fisionomia tipica dell'assassino.



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La testa del Boggia rimase presso l'Ospedale Maggiore fino al 1949, quando, nell'ottica di una serie di dismissioni, tutti i reperti e i preparati umani vennero inumati a Musocco.

Una fedele ricostruzione dell'arma del delitto preferita dal Boggia, una mannaia da macellaio, ad opera di Roberto Paparella, è visibile presso il museo-raccolta di Arte criminologica dello stesso autore (Olevano di Lomellina, oggi in esposizione semipermanente a Casale Monferrato, castello dei Paleologi).


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Bibliografia

Luzzi, Giovanni, Il giallo della stretta Bagnera, Libreria Milanese 1999;
Gazza Franchini A., Antonio Boggia il mostro di Milano, in "Historia", n. 172, 1972.

Mauro Colombo

 ottobre 2009
ultima modifica: ottobre 2014

maurocolombomilano@virgilio.it