A differenza di oggi, agli inizi del Novecento le informazioni non giravano certo veloci, e la foto di un cadavere non poteva essere diramata in pochi secondi a tutte le Questure, affinchè la vittima venisse riconosciuta.
Fu così che il ritrovamento, nelle acque portuali
di Genova, di una valigia con all'interno una donna fatta a pezzi, e
la denuncia anonima della sparizione di una signora milanese, non
poterono essere messe in relazione se non dopo molti giorni.
Anzi, ancora oggi, questo macabro e per certi versi
scandaloso caso giudiziario, è catalogato come un "noir"
sia genovese, che milanese. Quasi che ognuna delle due città volesse
e voglia annoverare questo delitto tra i propri fatti di cronaca
nera. Anche se il processo, il vero scandalo, fu tutto milanese.
Andiamo per ordine: il 24 maggio 1903 nel porto genovese venne
ripescata una grossa valigia galleggiante; apertala, si rinvenne, in
abbondante naftalina, un cadavere femminile fatto a pezzi,
eviscerato, mancante di taluni elementi, con il volto tumefatto, i capelli rasati quasi a zero.Sulle prime, sopravvalutando le correnti del porto ligure, si azzardò che la valigia fosse arrivata dopo giorni e giorni di deriva. Qualcuno ipotizzò persino che fosse arrivata da Londra, ultimo lavoro di Jack lo squartatore, le cui nefandezze ancora scuotevano l'opinione pubblica.
Più prosaicamente, si fecero presto avanti due facchini ed un barcaiolo: i primi ricordavano di un signore con baffetti, elegante, sceso dal treno in arrivo da Milano. Questi li aveva assoldati per farsi accompagnare fino al mare, e per lui trasportarono una pesante valigia.
Al porto, ottenne i servigi di un barcaiolo, per una breve escursione che disse di voler fare in attesa di poter ripartire. La valigia che l'uomo aveva con se, ricordava il barcaiolo, ad un certo punto cadde in acqua, e il forestiero confessò di volersene disfare per non pagarci i costi daziari.
Una giustificazione che al ligure dovette apparire in quel momento verosimile.
Così, mentre sotto la Lanterna si cominciava a far luce circa il ritrovamento raccapricciante, sotto la Madonnina, la questura era alle prese con una lettera anonima. Una delle tante che ogni giorno arrivavano sulla scrivanie dei funzionari, ma così circostanziata da meritarsi un approfondimento.
Vi si narrava della sparizione, da ormai molti giorni, di una giovane inquilina di via Macello 25, tale Ernestina Beccaro, dopo che la stessa e il marito erano stati uditi litigare furiosamente durante la notte. Venne convocato il marito, il contabile Alberto Olivo, 48 anni.
Irreprensibile impiegato della Richard Ginori, famosa fabbrica sul naviglio Grande presso san Cristoforo, l'uomo raccontò dei frequenti screzi in casa, e della partenza della consorte dopo l'ennesimo, più aspro, litigio.
A suo dire, era andata a raggiungere dei parenti, tanto per sbollire la tensione coniugale. Sulle prime la cosa apparve plausibile, vista anche la serietà e la posizione sociale dell'uomo.
Successive indagini più approfondite però convinsero gli inquirenti che le cose non erano poi così limpide. E soprattutto, era arrivata a Milano la storia della valigia e del signore milanese coi baffetti.
Riconvocato e messo alle strette, Alberto Olivo dovette confessare, e assumersi la paternità di valigia e cadavere annesso.
I tragici fatti si erano svolti nel modesto ma dignitoso appartamento di un edificio ormai scomparso, un tempo esistente al n. 25 di via Macello, a due passi dal macello cittadino (e dal mercato del bestiame) che si affacciava sull'attuale piazza sant'Agostino e via Olona.
La via, poi rinnovata negli edifici, cambiò negli anni trenta il nome in Modestino quando venne aperto il parco Solari, sorto dove prima si estendeva lo scalo ferroviario per il bestiame in arrivo.
Un quartiere periferico e popolare, dove però il lavoro non mancava e neppure le occasioni di svago: caffè, osterie, la fiera di porta Genova e la famosa casa Reininghaus (in piazza Cantore), comprendente il Teatro Birraria Stabilini, café-chantant con sala da biliardo, frequentato da un pubblico grossolano e noto per le ballerine discinte.
Proprio quello svago che la signora Ernestina pare apprezzasse molto, con dispendio del denaro che il marito avrebbe preferito vedere risparmiato o investito.
Del resto, nel palazzo tutti avevano parole di elogio per il contabile, un signore educato, colto, gran lavoratore, con la passione per la matematica, decisamente più rispettabile di quella moglie pescata in un'osteria dove prestava servizio come cameriera.
I vicini raccontarono anche degli insulti che la signora rivolgeva troppo spesso al marito, per le scale, nell'androne, appena vi fosse l'occasione, e sempre per rinfacciargli la sua oculatezza nel gestire le finanze domestiche. Lei che invece spendeva i quattrini per vestiti, seratine ai caffè, locali da ballo, appunto.
L'Olivo ammise di aver pugnalato a morte la consorte il sabato sera del 16 maggio 1903. A suo dire, ella avrebbe rifiutato di accudirlo durante un malessere, insultandolo pesantemente.
Insomma, l'Olivo disse chiaramente di aver ucciso per reazione ad un brutale e volgare attacco, quasi senza neppure averne coscienza, in preda com'era ad una incontrollabile ira.
Dopo averla accoltellata, l'uomo narrò agli inquirenti di aver dormito fino a tarda mattina, essendo domenica, e di aver poi approfittato della bella giornata primaverile per una passeggiata tranquillizzante. Durante la quale, evidentemente, meditò sul da farsi. Suicidarsi, costituirsi, oppure evitare a tutti costi l'arresto.
Sappiamo che scelse la terza strada.
Così, i giorni successivi all'omicidio li passò lavorando alla Richard (per non destare sospetti) e al sezionamento del cadavere. Durante la settimana, un po' alla volta, riuscì ad eviscerare e scarnificare il corpo, liberandosi degli organi grazie allo scarico del gabinetto.
Poi rasò i capelli e infierì sul volto del cadavere per rendere problematica l'identificazione. Messi infine quasi tutti i pezzi in una valigia, approfittò del fine settimana ormai sopraggiunto per salire sul treno per Genova, con il proposito di far affondare la valigia e cancellare il suo gesto per sempre.
Firmato il verbale, Olivo venne tradotto a san Vittore, praticamente a due passi da casa.
Il processo iniziò l'anno successivo, nel giugno del 1904. Venne ben presto esclusa l'infermità di mente, benchè l'imputato soffrisse di epilessia e benchè lui stesso avesse descritto l'accoltellamento come un momento di cieca e violenta ira.
La giuria fu incredibilmente clemente, in pratica assolvendolo!
Nel secondo grado di giudizio intervenne come perito il celebre e ancora accreditato Cesare Lombroso, che sostenne, forse anche per l'età avanzata, una tesi poco convincente circa la pazzia del reo confesso, auspicando l'assoluzione e la segregazione al manicomio della Senavra.
Giurati e giudici vollero invece vedere un delitto perpetrato da un marito raffinato, lavoratore, colto, risparmiatore, perennemente sbeffeggiato da una moglie irrispettosa, volgare, ignorante, dedita al vizio e allo sperpero di denaro.
Olivo fu giudicato colpevole solo di vilipendio e occultamento di cadavere. L'omicidio fu ritenuto l'epilogo di un litigio, logica conseguenza di una provocazione durata anni. Insomma ci fu sì uxoricidio, ma d'onore!
Ernestina se l'era cercata, Alberto aveva per forza di cose reagito, e di questo non lo si poteva rimproverare.
Condanna: una settimana di galera e 135 lire di sanzione pecuniaria (meno del suo stipendio mensile).
Se oggi provoca stupore, all'epoca il verdetto venne visto dai più come condivisibile, solo una certa stampa si scagliò contro questo metro di giudizio retaggio di costumi di secoli passati.
Olivo tornò subito un uomo libero e rispettabile. Scrisse di getto un memoriale con la sua biografia.
Cesare Lombroso inserì questo (delirante) scritto in un libro che intitolò: "Il caso Olivo" e che vide la luce nel 1905.
La vita riservò al vedovo ancora molti anni sereni, che passò accanto alla seconda moglie. Ebbe anche il piacere di vedersi pubblicato un suo scritto di matematica, la sua vera passione.
Superati gli ottanta anni, lo si incontrava ancora, elegante e coi baffetti bianchi, mentre raccontava stanco ma compiaciuto la sua storia a qualche giovanotto curioso.
Morì serenamente nel dicembre 1942, a Milano.
Mauro Colombo
febbraio 2017
maurocolombomilano@virgilio.it